Monte Calvo: il vertical con vista sul Gran Sasso
L’ultima volta che sono stato su Monte Calvo era tutto fermo. Era il 2021, piena pandemia, coprifuoco violato – con o senza autocertificazione – e la città, laggiù, sembrava un plastico da studio televisivo, di quelli che vedi da Vespa: luci spente, silenzio irreale, nessun movimento. Come se il mondo si fosse dimenticato di respirare.
Stavolta invece il respiro l’ho sentito tutto. Il mio, per cominciare. Ma anche quello degli altri, quello della montagna, quello dei sassi sotto le scarpe che non sempre perdonano l’appoggio sbagliato. Il vertical Monte Calvo non lo racconti con i numeri – 4,8 km, +1025 metri, partenza da Le Sajere – lo racconti con le gambe, che dopo i primi duecento metri afferrano davvero il significato della parola vertical (e dire che mi guadagno da vivere anche insegnando inglese). Lo racconti con la gola che si chiude mentre cerchi di fare ritmo, con gli occhi bassi per cercare l’appoggio, e al tempo stesso alzati verso la vetta per capire quanto manca: anche se a scandire la strada ci sono i cartelli, uno ogni cento metri di dislivello guadagnati.

Si parte seguendo una carrareccia, tra sterrato e tratti d’erba. Il primo riferimento familiare me lo ritrovo quasi per caso: la cassetta degli Alpini, quella dove abbiamo fatto Ferragosto l’estate scorsa, tra birre, anguria e canzoni stonate. In cuffia parte It’s a Long Way to the Top (If You Wanna Rock ’n’ Roll). Mi tiene su la playlist dei Rockin’1000, in loop in vista del concerto del prossimo weekend a Cesena. Il percorso non è lunghissimo – neanche cinque chilometri – ma la salita è continua, ripida, senza respiro. Il tempo non lo guardi. Guardi dove mettere i piedi.
Ogni tanto spunta un vecchio paletto, memoria di un tracciato più regolare. Ma il vertical non ha voglia di mediazioni: si stacca dall’anello classico e punta dritto. Si incrociano i cammini battuti dagli escursionisti, ma qui si taglia secco, dal bosco in avanti. La forestale sparisce, il fondo diventa subito più cattivo: roccia, ghiaia, radici. Si sale accanto a vecchie linee elettriche, e in alto si intravedono le antenne. La vegetazione si apre, l’aria si fa un po’ più tagliente. Ultimi zigzag, poi la croce a quota 1.898.
E la città di nuovo lì sotto. Quasi immobile al tramonto, come allora. Ma stavolta, se alzi lo sguardo, vedi anche la catena del Gran Sasso, il Velino, il Terminillo. La Piana dell’Aquilano da una parte, quella di Cascina di Cagnano dall’altra. Vista piena, sudore addosso col vento della sera che si fa sentire.

Per la discesa, a gara finita, c’è da deviare verso i ripetitori. Lì imbocchiamo la carrareccia che ci riporta giù. Breve sosta al rifugio Monte Calvo e poi subito verso la alla macchina per la premiazione dei vincitori: Carlo Silvagni (Live Your Mountain), col tempo di 49′ 18″, seguito da Lorenzo Bronchinetti (49′ 32″) e Roberto Di Turno (50′ 48″ con la tessera dello Sci Club Scano). A guidare la classifica femminile è una doppietta dell’Atletica Abruzzo L’Aquila con Chiara Benedetti (59′ 41″) e Claudia Gabrielli (1:02′ 22″), quindi Carla De Amicis (1:04′ 38″) (Classifica completa a questo link).
Una gara valevole anche per il IX Memorial Santino Lattanzi, accompagnata da una passeggiata serale a fianco della prova competitiva. Il suo ricordo come appassionato di montagna – un uomo buono, dal sorriso contagioso – è affidato all’impegno e alla determinazione del figlio Emanuele, triatleta di esperienza, capace di coinvolgere tutta la famiglia.
“Mi capita di correre su montagne in Italia e all’estero”, ha raccontato ai partecipanti prima di dare il via poco dopo le 18. “Mio padre, invece, aveva Monte Calvo; per lui questa montagna era la cosa più preziosa. Anzi, arrivava a dirmi in dialetto: ‘Ma che ci vai a fa’ sulle altre cime…’” Prima della partenza, la benedizione di don Jean Claude Rajaonarivelo: “In salita si fatica e si soffre insieme”, ha sottolineato, evocando una preghiera in movimento.
di Fabio Iuliano – fonte: L’Aquila Blog

