Quel dolore lungo quarant’anni
4 Febbraio 2023 Condividi

Quel dolore lungo quarant’anni

Le finestre della casa sulla Mausonia si aprono sul Gran Sasso. L’orizzonte perde progressivamente il rosso e il tramonto lascia spazio al chiaro di luna e al suo riverbero sulla neve. Quella neve che anche dopo quarant’anni Anna Maria Vizioli guarda ancora «con malinconia e apprensione», talvolta sconforto, pensando alla valanga che il 6 febbraio 1983 si portò via suo marito Piermichele Vizioli, 33 anni, insieme ad altri due alpinisti volontari del Soccorso alpino, Stefano Micarelli, 20 anni, e Riccardo Nardis, 32. Talvolta, per la donna, all’epoca dei fatti 28enne, la linea della neve è come un graffio sull’anima: «Quella valanga», commenta, «colpì sei persone, ne uccise tre e travolse tutti noi, con le nostre famiglie da ricostruire». Tre si salvarono, dunque, pur portando per sempre le ferite di quel giorno maledetto. Un giorno rimasto nella memoria collettiva, anche dopo 40 anni, e non solo per i partecipati funerali a San Bernardino.

L’ESERCITAZIONE
«Che rabbia! Oggi sto di servizio in caserma. Proprio oggi, domenica, 6 febbraio 1983. Tutti i miei amici del Soccorso alpino sono in giro per i monti, però lo sono senza di me». Il racconto è di Paolo De Angelis, medico appassionato di montagna, a lungo a servizio del Soccorso alpino. Quel giorno di 40 anni fa si salvò. «Appena svegliato», ricorda, «provai un po’ di invidia non perché io fossi in caserma, ma perché non ero sui monti. C’era in atto una esercitazione del soccorso a monte Jenca, nella zona della Vaccareccia, sotto una neve bagnata e pesante, che cadeva dalla notte a tratti fitta, a tratti mista a pioggia. C’erano tutti i miei amici… tutti». In quota, fianco a fianco, si sedimentavano amicizie importanti. «Erano tanti anni», ricorda, «che facevo parte del Soccorso, ma alcune persone mi erano particolarmente care. Ero un autodidatta, avevo imparato sulla mia pelle, sin dal 1971. Ma il tempo passa e nel 1983 ormai eravamo vecchi. Il giovincello era Stefano, 20 anni, già bravissimo in roccia, superbo sugli sci, eppure lui aveva scelto me come modello e mi seguiva come un’ombra sia in montagna che durante i soccorsi. Non riuscivo a liberarmi di lui neppure sotto i portici. In verità neanche volevo. Sabato 5 febbraio, lo incontrai verso San Bernardino, ci fermammo davanti la vetrina delle scarpe di Mazzitti e parlammo anche dell’esercitazione del giorno dopo».

QUELLA MATTINA
Partenza all’alba. I gruppi erano due, uno in salita e l’altro ad attendere all’arrivo. Una salita alla portata di tutti, anche se le condizioni atmosferiche destavano qualche preoccupazione, la giornata era cupa e il cielo plumbeo. È una delle persone presenti in quel gruppo a raccontare: «Dovevamo raggiungere le creste e poi svalicare, ma giunti in vetta il tempo era terribile e la visibilità ridotta allo zero, valutando tutto, si decise di proseguire». Nel momento della discesa, il gruppo ha però incontra della neve fresca, gelida e leggerissima, che nessuno poteva aspettarsi, dopo mesi di mancanza di neve, ed è lì, a ridosso del canalone, che si è compiuta la tragedia. In sei vennero travolti. «Immagino quella valanga», valuta Annamaria Vizioli, «come un imbuto che decide chi tirare dentro e chi lasciare fuori. Una strana roulette che ha lasciato sei persone in balìa di un destino più grande». Alle ricerche partecipò lo stesso De Angelis. «A tanti anni di distanza», scrive sul suo blog, «ancora, la sera, quando guardo il Gran Sasso innevato, la mia mente corre a quell’episodio. Qualche tempo fa, in inverno, una domenica per me particolarmente triste, ho percorso il versante sud di monte Jenca e sono sceso a nord, lì dove era avvenuta la tragedia. C’era molta neve ma i bassi alberi ed il luogo non ispiravano nulla di pauroso, il pendio non incuteva timore di valanghe. Per sfida sono sceso nel canalone. Dal 6 febbraio 1983 non ero tornato più in questi luoghi. Mi è venuto da pensare perché ora la valanga non si muoveva. Tra di me le lanciavo la sfida. Chissà, se ci fossi stato io, forse Stefano non sarebbe morto. Lui mi avrebbe certamente seguito come sempre e, chissà, forse io non sarei passato nel canale. Forse ancora una volta il mio intuito mi avrebbe salvato, salvando Stefano con me. Oppure forse questa volta il destino mi avrebbe fatto pagare il conto degli anni precedenti seppellendomi con i miei amici».

LE VITTIME
Micarelli era uno studente di Giurisprudenza, Nardis lavorava alla Soprintendenza dei Beni culturali e Vizioli all’Ufficio scolastico regionale. «Eravamo sposati da qualche anno», ricorda sua moglie, «e sin da quando l’ho conosciuto ricordo il suo grande amore per la montagna. Una passione che ho sempre vissuto con grande apprensione, perché temevo una tragedia. Peraltro, lui era entrato nel Soccorso alpino quasi come segno di riconoscenza nei confronti di alcune persone che, qualche anno prima, lo aiutarono in un momento di difficoltà». Per la signora Annamaria, dipendente dell’Agenzia delle entrate, sono stati anni difficili, con due bambini piccoli da crescere da sola. «Qualche anno fa», sottolinea, «ho perso anche mio figlio Lorenzo per un brutto male. Ho dovuto imparare a stringere i denti e andare avanti, fino a quando la vita mi ha dato la possibilità e il coraggio di guardare avanti».

LA MEMORIA
In memoria delle tre vittime del 1983, lunedì sarà intitolata ai “Tre amici”, dal Cai, una stazione di esercitazione per le stazioni Artva a Campo Imperatore. I tre saranno anche ricordati con una messa, sempre lunedì, alle 18 nella chiesa di San Pio X al Torrione.

di Fabio Iuliano: fonte: il Centro

Foto di Kira Laktionov su Unsplash

La valanga del febbraio ’83

La testimonianza di un sopravvissuto

Da poco è stato celebrato il secondo, triste anniversario della tragica scomparsa sul Monte Velino di Gianmarco DegniValeria MellaGian Mauro Frabotta e Tonino Durante, quattro giovani avezzanesi dispersi per giorni sotto la neve. Un incidente che ha riportato di stretta attualità il dibattito sulla sicurezza in montagna quando si va in escursione a piedi o sugli sci. Un dibattito che ha visto spesso tra i protagonisti il presidente del Cai L’Aquila, Vincenzo Brancadoro. Le sue valutazioni in tal senso sono frutto di anni di esperienza in quota. Un’esperienza segnata anche da una tragedia personale, nel 1973, quando proprio in montagna ha perso suo fratello Andrea. «Era lui il maggiore e il primo a trasferirmi la passione della montagna», ricorda, «da allora ho cercato di portare avanti quella passione anche per lui che non c’era più. Così mi sono unito al Soccorso alpino». Anche Brancadoro faceva parte di quel gruppo ristretto di sei persone nell’esercitazione che il 6 febbraio 1983 rimase colpito dalla valanga. «Fu una casualità assoluta», ricorda, «per quello che mi riguarda una vera e propria partita con il destino che ancora oggi non riesco a spiegarmi. Del gruppo siamo stati travolti in sei; anzi, se devo essere preciso, sarebbe più giusto dire in cinque, perché io fortunatamente restai pressoché fuori dalla slavina». Una circostanza, anche quest’ultima, frutto del caso. «Ero alla testa della spedizione», sottolinea, «poi, chissà perché, mi fermai un secondo a sistemare qualcosa e gli altri mi passarono davanti. La neve fu fatale ai primi tre che praticamente non ebbero scampo. Quello che ci ha traditi», ammette Brancadoro, «era la sicurezza effimera che ci dava l’avere raggiunto un punto dove c’era vegetazione, una specie di boscaglia. Ci sentivamo relativamente tranquilli. Con il maltempo non ci siamo resi conto di essere a due passi da un canalone lungo e stretto, in una zona dove c’erano stati grossi accumuli di neve». Nonostante questo Brancadoro ha scelto di continuare questa sua passione. «È la mia vita», spiega, «e andare in montagna mi insegna a non dare mai nulla per scontato. Episodi come quella maledetta valanga mi insegnano a non adagiarsi mai sulla sensazione di sicurezza. Questo vale per chi va in montagna così come per chiunque si metta in mare o per strada. Bisogna sempre ridurre la percentuale di rischio, perché i pericoli sono sempre in agguato». Per questo motivo sono sempre molte le attività di divulgazione da parte del Cai delle misure di sicurezza. Lunedì, oltre all’intitolazione del campo a Stefano MicarelliRiccardo Nardis e Piermichele Vizioli ci sarà una giornata di approfondimento su tecniche di soccorso in montagna. (fab.i.)

Fonte: il Centro