La morale del coprifuoco
«Francesco stasera non sa dove andare, cammina verso il porto per gridare: voglio vedere il mare» (Tricarico, “A Milano non c’è il mare”)
di Gian Marco Mancassola – fonte: il Giornale di Vicenza – E intanto sono cinque mesi. Cinque mesi di coprifuoco, cinque mesi di mezze sere, di notti interrotte. Per durata è la restrizione più resistente: supera di molto il lockdown o le zone gialle, arancioni e rosse. E va tutto bene, o almeno sembra. Intendo: a nessuno pare interessare più di tanto. Fateci caso: in questi mesi abbiamo letto di proteste per ogni restrizione, dalla didattica a distanza ai ristoranti, dagli estetisti ai teatri. Nessuno è mai sceso in piazza contro il coprifuoco. È come se intorno al coprifuoco fosse stato trovato un tacito accordo tra chi governa e chi è governato: ok, questo sciroppo è amaro, ma meno di altri, ce lo beviamo senza fiatare. Questo è l’ultimo giorno di ventuno in zona rossa.
Diciamo la verità: c’era davvero troppa gente in giro. Di giorno le strade erano molto trafficate, come se fosse tutto aperto. Anche sulla A4 si vedevano grumi di veicoli da zona gialla più che da zona rossa. Non ho le prove, ma ho il sospetto che non tutti abbiano rispettato l’obbligo di restare in casa e di uscire solo per comprovate esigenze da autocertificare.
E ho pure il sospetto che anche i confini comunali siano stati bellamente attraversati in lungo e in largo. È stata una zona rossa per molti (studenti, bar e ristoranti, negozi di abbigliamento, parrucchieri, teatri e musei), ma non per tutti. Eppure, questa allegra anarchia latina alla luce del sole, finiva con rigore prussiano e puntualità svizzera allo scoccare delle 22. Di tanti divieti, il coprifuoco è l’unico a essere davvero penetrato sotto la pelle degli italiani, quasi che fosse stata adottata una nuova misurazione del tempo: i giorni finiscono alle 22, come prima finivano a mezzanotte. Anche ora che le giornate si allungano e l’aria si fa tiepida, non se ne parla, non è all’ordine del giorno, non circolano bozze di decreti che allentino le misure e ricuciano le notti interrotte. Da 13 mesi siamo bombardati da messaggi su cosa è bene e cosa è male in tempo di pandemia. Tra prima, seconda e terza ondata abbiamo dimostrato di soffrire di amnesie, finendo per cadere sempre negli stessi errori: distanziamento, assembramento, igiene, protezione.
L’unico comandamento che abbiamo compreso e rispettato salvo rare eccezioni, è anche l’unico varato senza il supporto di alcuna evidenza scientifica: il coprifuoco. Quando venne deciso, nei primi giorni di novembre, l’immunologa Antonella Viola si espresse così su Facebook: «Il coprifuoco non ha una ragione scientifica ma serve a ricordarci che dobbiamo fare delle rinunce, che il superfluo va tagliato, che la nostra vita dovrà limitarsi all’essenziale: lavoro, scuola, relazioni affettive strette. L’unica cosa che funziona contro questo virus è limitare il numero di persone che incontriamo nelle nostre giornate. Dobbiamo restringere il cerchio delle nostre relazioni, personali e professionali».
Anche l’epidemiologa Stefania Salmaso disse cose simili, come quelle affidate alle pagine di Open: «Questo provvedimento non è risolutivo e non c’è alcuna evidenza scientifica che ci dica che, con una chiusura dalle 22 alle 5, si abbassi la curva epidemiologica. Va nella direzione di tagliare ciò che non è essenziale, soprattutto le attività di svago». Con i bar chiusi alle 18, le discoteche chiuse punto, così come i cinema e i teatri, le occasioni di svago e di incontro sarebbero dunque le cene a casa di amici. O meglio, i dopo-cena, perché aperitivi e cene si sono sempre fatti anche in questi cinque mesi. E dunque, quali sarebbero queste attività superflue sospese dal coprifuoco? Non resta molto, a parte le chiacchiere con un amico e gli affetti non dichiarati, quel mondo spesso sommerso e a volte invisibile di amori carsici, relazioni instabili, attrazioni proibite, desideri nascosti.
Come un antico censore, il coprifuoco ha spezzato le trame in chiaroscuro delle nostre esistenze, il lato che proteggiamo dalle intrusioni di sguardi indiscreti: di notte si deve stare in famiglia, come se l’Italia fosse ancora lo Stivale scudocrociato e conformista degli anni del boom. Forse nessuno protesta perché scendendo in piazza verrebbe allo scoperto, da invisibile diventerebbe visibile: implicitamente, la sua sarebbe una confessione.
A distanza di cinque mesi non ho trovato alcuno studio epidemiologico sull’efficacia del coprifuoco: quante vite ha salvato? Né trovo ricerche sugli effetti collaterali: quante esistenze si sono avvitate nella solitudine e nella distanza? Come molte misure anti-contagio, il coprifuoco porta con sé alcune storture: bolla come non essenziali importanti pezzi di economia, punisce i segmenti di popolazione più giovane, discrimina come superflui i rapporti “liquidi” che sfuggono ai radar dei “solidi” certificati anagrafici. Grattando sotto la superficie del coprifuoco resta un alone di “moralismo” che sin dall’inizio ha accompagnato la pandemia: l’idea di una colpa da espiare, di un nuovo diluvio, di una palingenesi per lavare i peccati di un’umanità libertaria e libertina. E forse non a caso il coprifuoco ha origine nel Medioevo, quando veniva imposto di spegnere ogni fiamma nelle case, per riscaldarsi o per illuminare, al fine di prevenire la diffusione di incendi nelle città. Mille anni dopo, per domare l’incendio del virus, non abbiamo saputo inventarci nulla di diverso: spegnere ogni fiamma, non importa se ci serve per fare luce o per provare calore.