Intervista ad Annalisa Simone per il suo nuovo romanzo
«La scrittura mi permette di riformulare ogni accadimento della mia vita». Pur fedele alla premessa di base “Ogni riferimento a fatti e persone è da ritenersi puramente casuale”, i romanzi di Annalisa De Simone dicono tanto di lei e del suo mondo. Non fa eccezione Sempre soli con qualcuno, libro in uscita per Marsilio con cui la scrittrice abruzzese ha già pubblicato Non adesso, per favore (2016), Le mie ragioni te le ho dette (2017), e Le amiche di Jane. Sopravvivere all’innamoramento con Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (2019). Aveva, invece, esordito per Baldini&Castoldi nel 2013 con il romanzo Solo andata. Nata all’Aquila nel 1983, nel suo nuovo libro De Simone racconta ciò che accade quando si sceglie di vivere, invece di continuare a portare avanti una vita che – pur essendo quello che si sognava in passato – ora non ci corrisponde più. Come l’autrice, anche la giovane protagonista di questo romanzo vive a Roma e ha origini abruzzesi. Ha una bella casa, un uomo che la ama e con il quale ha costruito una vita agiata e di grandi ideali vicini alla sinistra. La protagonista, soprattutto, ha ambizioni. La prima è quella di consolidare la sua passione per la scrittura. La seconda, d’abbrivo più nascosta, ha a che fare con un’ansia di futuro: vuole un figlio. Manifesta questo desiderio al compagno, che però nicchia: non dice no ma antepone questioni riguardanti il suo lavoro di avvocato per i diritti degli ultimi. La donna, che dirige un festival di letteratura, incontra un deputato abruzzese con il quale dovrebbe lavorare per L’Aquila. Il compagno della donna è biondo, alto, ricco e di sinistra. Il deputato, al contrario, è piccolo, bruno, di origini contadine e di destra. Tra loro, tuttavia, comincia una storia che porterà ciascuno a doversi confrontare con una possibile nuova vita. Una scrittura matura, spregiudicata, a tratti struggente nel tracciare i confini della geografia del desiderio.
De Simone, come convivono realtà e finzione nel suo romanzo?
La mia storia è di pura finzione. Ma ho costruito una protagonista che condivide con me l’età, il fatto di essere aquilana, di vivere a Roma e di fare la scrittrice. Avevo bisogno di una voce con cui identificarmi, in questo modo mi è stato più semplice credere che quanto stavo inventando fosse accaduto, e provare a sentire le emozioni della protagonista senza limitarmi a pensarle. L’identificazione con la protagonista è stata così profonda che durante una visita ginecologica ho fatto la sua anamnesi al posto della mia, mi ero convinta che anch’io avessi un ovaio micropolicistico.
Da una parte la vita ideale, punto di arrivo nell’immaginario collettivo, dall’altra un presente fatto di incontri inattesi, uno in particolare che cambia i paradigmi: quello che sembrava stabilito si rivela ora provvisorio. Perché raccontare una storia così?
Per la prima volta, a 37 anni, avverto il tempo non più come la premessa di un lunghissimo domani, ma come un tempo di scelte, a volte improcrastinabili. Ho dato alla protagonista le mie paure e uguali domande, tipo: è questa la vita che desideravi costruire? Il suo incontro inatteso serve per portare a galla le contraddizioni che si rifiutava di vedere, mentre era lì che pensava: c’è tempo.
Nessuno sa cosa sia una madre, sembrano dirci le premesse del romanzo, che quella madre i figli li abbia fatti o no. In che modo questo riflette la sua prospettiva personale?
Come la protagonista, ho desiderio di un figlio. E come lei la paura di non riuscire a diventare madre.
L’Aquila è una città presente nel romanzo. Luoghi, aneddoti, ma anche espressioni dialettali come “all’assacrese” (all’improvviso). Quanto si sente legata alle sue origini?
Ora posso dire di essere profondamente legata alle mie origini. Servono a me “donna” per capire chi sono, servono a me “scrittrice” per inventare partendo da ciò che conosco meglio. Durante l’adolescenza, invece, ho avuto bisogno di detestare ogni cosa, i luoghi, la gente, il dialetto, la montagna. Guardavo il profilo della conca aquilana e mi sembrava più del resto un impedimento, morivo dalla voglia di scoprire cosa ci fosse oltre quelle vette, e anche dalla paura.
Non deve essere stato facile metabolizzare dinamiche come quelle che hanno accompagnato la sua uscita di scena come presidente del Teatro stabile d’Abruzzo. Possiamo considerare questo libro come un modo di guardare oltre?
Lo scontro che ho vissuto, nella vicenda del Festival degli Incontri e del Tsa mi ha dato la cifra di quanto i ragionamenti fossero figli di una polarizzazione. Sono partita da qui per costruire il personaggio dell’amante. Mi sono chiesta: e se la protagonista, una scrittrice che vota a sinistra, si innamorasse di un politico di Fratelli d’Italia, quell’uomo sarebbe “presentabile” per il suo piccolo mondo, e lei per il mondo di lui? Ne è uscito fuori un amore che ha un che di struggente. In fondo è questo che più amo del mio lavoro, ogni accadimento può trasformarsi in materiale narrativo da riformulare come voglio. Per tornare alla domanda, certo che guardo oltre, ho l’onore di occuparmi insieme ad altri di un ente che produce cultura, l’Istituto Luce Cinecittà, e continuo a guardare con affetto ciò che succede all’Aquila e in Abruzzo.