Un supergruppo in concerto e quattro canzoni sacre
Adattando a mio piacimento l’adagio di Giovanni Giolitti, fare una parafrasi dei testi di Kurt Cobain non è difficile, è inutile. Il senso di alcuni versi te lo puoi solo ritrovare tatuato addosso lungo la strada. E ieri, mentre facevamo il soundcheck, ho scoperto per la prima volta parole cantate e ricantate per anni: “I am worse at what I do best / and for this gift I feel blessed“. Qualcosa che a me ora arriva come “Do il peggio di me a fare ciò che faccio meglio. E per questo dono mi sento fortunato”.
Benedetto e fortunato anche dalla possibilità di “fare del mio peggio” in una serata di puro rock, in omaggio a quattro canzoni chiave, ciascuna a rappresentare una decade importante nella storia della musica: dagli anni Sessanta agli anni Novanta. L’occasione è “The Biggest Combat Rock Band” (Bcrb) un’iniziativa nata dal format “Combat Rock”, evento live che prevede l’esibizione di due band contrapposte sullo stesso palco che si sfidano suonando vicendevolmente cover rappresentando ognuna la propria band di riferimento.
Qui però la sfida viene meno: Bcrb è più che altro un supergruppo con decine di elementi – tra batteristi, bassisti, chitarristi e voci – che suona pezzi all’unisono, pur lasciando spazio alle parti soliste. Un’esperienza che, nel piccolo, è una sorta di Rockin’1000. Ne viene fuori comunque una serata straordinaria di sonorità prevalentemente elettriche, un’occasione (ben rara quest’estate a causa delle misure anti-Covid) per far vibrare gli amplificatori.
Appuntamento alla Marina di Pescara, in Abruzzo, per una serata di Estatica, il cui cartellone è stato rimodulato nelle ultime settimane. Una volta ricevuta la nuova convocazione dagli organizzatori della Spray Records, confermo la mia partecipazione come vocalist. Passo gli ultimi giorno in spiaggia con i testi delle quattro canzoni designate, tutto inutile: è solo il monitor laterale che trovo inaspettatamente di fronte alla mia postazione microfonica (la numero 15) ad evitarmi una performance simile a Bob Dylan nel video di We are the world.
Come band, occupiamo sia il palco sia parte della platea, lasciando il pubblico sulle gradinate, con tanto di posti ben distanziati. In realtà, sul palco ci sono solo i batteristi, una decina tra cui tre ragazzini. Immediatamente sotto, i bassi e le chitarre. Noi cantanti siamo disposti a semicerchio con la testa rivolta verso i musicisti, come se fossimo in sala prove. Mi scoccia dare le spalle alla gente. Per questo, quando l’atmosfera si scalda un po’, srotolo il cannon del microfono per avere modo di cantare salire su in platea e cantare da lì (sempre mantenendo le distanze per carità).
A cantare e “dirigere” c’è Simone Flammini, dalla postazione microfonica centrale. Con lui, Roberto Sala che si occupa anche di creare le condizioni ideali per realizzare vari videoclip (coordinamento organizzativo a cura di Marianna Di Vittorio). Di qui, la scelta di fare di ogni pezzo 3 take, nel tentativo di far concentrare le energie migliori sulle ultime versioni.
Si parte con gli anni Sessanta, e con Wild Thing dei Troggs, una canzone che vanta innumerevoli versioni realizzate dagli artisti più disparati. Tra le più famose, quella di Jimi Hendrix, con tanto di chitarra distrutta e un testo da antidoping. Flammini chiama tutti a raccolta, ma c’è da aspettare il via libera della sezine ritmica. Così chiama in causa i chitarristi dicendo: “Non dovete fare nulla di diverso che quello che farete tutta la vita, ossia aspettare che il batterista sia pronto”.
Dal quattro iniziale esce subito un bel sound, già ben rodato nel soundcheck del pomeriggio. Nella band ci sono anche ben cinque bassiste, una di loro – Valentina Sigismondi – ha gli occhi puntati di fotografi e cameraman, ha anche una go pro installata sulla paletta e corna da diavolessa che compaiono per Highway to Hell, l’omaggio agli anni Settanta sulle note degli Acdc (il brano è del 1979).
Tra i chitarristi, viene ricordato, c’è anche chi ha indicato questo pezzo in sede di esame come esempio di ritmo anacrusico, quel maledetto inizio in levare rispetto alla battuta che ci vuole un po’ a capirlo.
Gli anni Ottanta arrivano sulle note di “We’re not gonna take it” dei Twisted Sister, un bell’inno alla libertà che non fa mai male di questi tempi. Infine, i Novanta, con Smells Like Teen Spirit, canzone simbolo di Nevermind, l’album con cui i Nirvana superarono l’allora re del pop Michael Jackson su Billboard.
Per me è il momento più atteso. Sono di parte, tanto che, preso dall’entusiasmo, canto l’ultima take in un’ottava che non mi compete, perdendo la voce su quel Denial, denial, denial.
E non tutti la pensano così, a partire dallo stesso Simone che, citando il buon Magnotta (“La presi e la pagai”) invita i chitarristi a riporre l’accordatore nel fodero, “tanto con questa canzone non serve”. Prima di rompere le righe, decidono anche di esprimere le proprie perplessità nei confronti della band di Seattle, dando voce a un’improbabile versione italica da parte della band Ciementificio (si scrive proprio così). Io mi assento un attimo e li lascio sfogare. “Il rock non eliminerà i tuoi problemi. Ma ti permetterà di ballarci sopra”, si è trovato a dire Pete Townshend. Poi l’ultimo bis, ancora con gli Acdc.