Girodivite, focus su caporalato e schiavismo
Quando si parla di capolarato, la mente ci riporta a collegamenti logici che pensavamo di aver rimosso dalla nostra società in modo definitivo. Ed invece si comincia a pensare a come tutto questo non sia altro che una nuova involuzione dello schiavismo. Quello che qualche decennio fa, ci faceva inorridire ma anche ragionare, con troppa sufficienza, sulla considerazione anacronistica dell’imbarbarimento umano, come se tutto questo non ci appartenesse.
La realtà ha quel sottile modo di far crollare le nostre sicurezze. Anche quando proviamo a nasconderle con una divagazione folcloristica di certi fenomeni sociali. Qui in Sicilia ci siamo abituati presto a quegli occhi scuri della notte, più nera della nostra capacità di percepire cosa ci sia dietro biciclette arrugginite o uomini in fila indiana sui costoni delle strade che scansavamo con le nostre auto sulle sconnesse vie di comunicazione siciliane.
Ma forse lo abbiamo sempre saputo. È stato solo un ripetere di gesti e reazioni di chi ci ha preceduto. Quel voltarsi dall’altra parte per nascondere la paura di un recente passato vissuto in prima persona, che si sta affacciando prepotentemente sul nostro presente.
Abbiamo avuto il privilegio di scambiare qualche opinione con Marco Omizzolo, il giornalista e sociologo che ha vissuto l’esperienza diretta del lavoro nei campi o nelle serre, sotto il controllo diretto dei caporali e dei padroni. La storia di Omizzolo è nota. Un uomo che ha voluto vedere con i suoi occhi cosa vuol dire interpretare il ruolo di schiavo del terzo millennio. Si è infiltrato in una delle aziende dell’agro-pontino, spacciandosi per un indiano sikh. Qui ha potuto vivere gomito a gomito giornate lavorative che offendono la definizione stessa di lavoro, prima ancora della stessa dignità umana.
Marco Omizzolo, incalzato dalle domande degli astanti, ha provato a riassumere il significato intrinseco e più nascosto del sopravvivere, con la vita affidata alle mani delle mafie e di imprenditori senza scrupoli, con un unico contratto di ricatto etico a tempo indeterminato. È emersa questa curiosa evoluzione che ha portato a sostituire dalle serre torride i nordafricani con gli indiani sikh. Una sorta di emancipazione sociale nella quale, ancora una volta, non si riesce a vedere oltre a una guerra tra poveri.
Emblematico il crollo di ogni sogno di riscatto sociale e di vita degna di essere vissuta. Lo sfruttamento, un debito economico destinato a non saldarsi mai. Un contrasto tra la necessità di vivere e tradizioni religiose della propria identità etnica. Un sottile e precario stato d’animo, molto vicino ad abituarsi a subire per rimanere vivi e, forse, trasmettere la speranza alla famiglia rimasta nei luoghi d’origine di riuscire, in ogni caso, a trovare una via di normalità. Anche spaccandosi la schiena per quattordici ore al giorno, spesso aiutati da sostanze dopanti che tolgono anche la voglia di chiedersi perché.
Omizzolo ha lasciato una porta aperta, grazie al suo intervento, alla possibilità che gli occhi puntati sul fenomeno possano smuovere le intelligenze dei politici a disporsi favorevolmente alla nascita di nuove ed efficaci leggi contro questa forma di sfruttamento di esseri umani, nonostante la proposta di cancellare quelle già vigenti, per scarsi risultati di riscontro.
Altri spunti di riflessione che ci conducono verso altri collegamenti su cosa sia diventato il mondo del lavoro in Italia, sommerso ancora tra astruse e incomprensibili forme di lavoro. Un’altra forma di precariato esistenziale che ha, in questi anni, fatto nascere idee di nazionalismo e tutela di diritti che già da tempo sono stati svenduti in cambio di un’italianita’ che non ci garantirà di costruire una società e un mondo migliore.
Capolarato, schiavitù e precariato. Tre elementi che rischiano di fondersi con risvolti imprevedibili e che necessiterebbero un maggiore approfondimento. Ci impegnamo, dalle nostre pagine, di riprendere nel futuro l’argomento.