Pint of science, a scuola col beer professor
“2 beer or not 2 beer” verrebbe da scrivere a chi vuol mettere a tutti costi la birra nella ricerca scientifica e viceversa. Tuttavia, questa tre giorni di “Pint of science” sta avvicinando tante persone ad argomenti di discussione che altrimenti resterebbero confinati nelle aule accademiche. Al contrario, tra una birra e l’altra si parla di onde gravitazionali, nuove tecnologe del 5G, strategie di convivenza con l’orso bruno, passando per la prevenzione del rischio sismico, i social media, cohousing e… birre artigianali.
Sì perché nella giornata inaugurale il locale Fratelli-il Bacaro ha accolto Neil Reid, docente dell’Università di Toledo (Ohio), negli Stati Uniti, ospite d’eccezione conosciuto come “The Beer Professor”, per aver visitato oltre 150 birrifici artigianali in tutto il mondo, cercando le ragioni del successo planetario della bevanda al luppolo.
Un successo “grassroots”, che parte dal basso, quello delle birre artigianali. “Negli Usa contiamo oltre 6mila aziende di produzione”, spiega il professor Reid, “il fenomeno si è diffuso a grande scala negli anni Settanta dove si è passati, in maniera massiccia, dalle produzioni individuali, tra scantinati, piccoli stabilimenti improvvisati ovunque e locali pubblici riciclati ad hoc, a delle vere e proprie attività aziendali che ora occupano il 13% del mercato del luppolo”.
E in Italia?
La tendenza è in crescita. Si contano almeno 700 birrifici artigianali in un fenomeno incoraggiato da una cultura di base che per molti è quella dello “slow food” della degustazione di qualità. Un’abitudine che non può che essere accompagnata da un assaggio di birra artigianale. Una dinamica piuttosto forte anche in un Paese tradizionalmente associato al consumo del vino.
Professor Reid quali altre realtà europee ha avuto modo di analizzare da vicino?
Conosco piuttosto bene lo stato delle cose in Gran Bretagna. Anche lì, le birre artigianali vanno forte. E poi il Belgio, tra i primi produttori mondiali della birra. Ma anche i birrifici svedesi non sono niente male.
Di recente anche il premio Nobel Bob Dylan ha messo la faccia per promuovere un’attività di distilleria di whiskey. Come del resto Sting con il vino…
Credo che faccia tutto parte dello stesso trend che vede la crescita delle produzioni artigianali. Sempre più personaggi pubblici decidono di impegnarsi in prima persona. Che si parli di birra, di vino o di whiskey non è importante. La ricerca è quella di un gusto autentico e ricercato.
Quanto conta l’aspetto “grassroots”, dal basso?
Credo che sia fondamentale: è la certificazione di qualcosa che è nato spontaneamente, attraverso la la riconversione di piccole attività locali del XIX secolo che piano piano, negli Usa, in Italia, come in Nuova Zelanda si sono organizzate e hanno intrapreso dei percorsi più strutturati. In America è stata tracciata la via, anche attraverso l’ideazione di percorsi itineranti, alla scoperta dei birrifici.
Ha deciso di intitolare il suo Panel “Making your beer great again”. Cosa c’entra Trump?
Nulla, nulla… cercavo solo un titolo ad effetto.