Veronesi: “Lo sfogo su un diario funziona solo se dietro c’è una terapia
“MI capita spesso di parafrasare Carmelo Bene dicendo che quando si soffre il dilettante inizia a scrivere, il professionista invece smette “.
Sandro Veronesi crede agli effetti terapeutici della scrittura, ma solo a patto che sia finalizzata a una vera terapia, secondo dei precisi protocolli scientifici. “La mia esperienza personale”, spiega lo scrittore di Caos calmo e Terre rare (Bompiani), “mi insegna che se scrivi per scaricare sulla pagina la sofferenza allora forse sul momento riesci nell’intento ma poi non sai cosa fartene della scrittura. Quelli bravi hanno sempre saputo scrivere in qualsiasi condizione, anche da infelici. Penso a Leopardi, ad esempio. È difficile che un poeta non soffra. Ma la scrittura è veramente terapeutica solamente se c’è un lavoro di terapia dietro”.
I rischi quali sono altrimenti?
“Quando uno scrive in realtà vuole sempre essere letto, giudicato. Da tempo dicono che si scrive soprattutto per se stessi, ma poi la scrittura non finisce mai lì, come magari succede con la pittura: la pittura produce un oggetto, la scrittura ne chiede la sua pubblicazione”.
Che effetto ha l’atto della scrittura su Veronesi scrittore?
“È così impegnativo per me come processo e così arcano che se non sto bene non scrivo. Quando attraverso periodi di sofferenza mentale mi guardo bene dal farlo. Perché voglio preservare l’atto della scrittura, con la sua potenza, da queste influenze. Ma il mio, come dicevo, è un approccio da professionista: dedico alla pagina la mia vita attiva, non scrivo nel tempo libero. Se il tempo attivo è condizionato dalla sofferenza la prima cosa che ne soffre è proprio la scrittura. Non ho mai scritto come cura”.