Caso Riina, Petrilli: lo Stato ha un’altra cultura
“La Corte di Cassazione, con una sentenza che definirei coraggiosa, ha sancito che anche chi si è macchiato di gravi crimini e in carcere nel regime a 41 bis debba morire con dignità”.
Lo afferma l’aquilano Giulio Petrilli, del comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti, in merito alle polemiche conseguenti la richiesta di far morire fuori dal carcere, ”Totò u curtu” , il capo dei capi di Cosa Nostra, arrestato nel 1993 e sottoposto a regime di 41 bis, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Petrilli fu arrestato il 23 dicembre del 1980, con l’accusa di partecopazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea.
Detenuto per 5 anni e 8 mesi fu poi assolto dalla Corte d’Appello. Un proscioglimento divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. Da allora si batte per ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. Fino ad oggi tutte le sue istanze non hanno trovato riscontro.
“Salvatore Riina, come Bernardo Provenzano – spiega Petrilli – sta morendo in carcere, le diagnosi mediche sono chiare e non lasciano scampo, allora i giudici della prima sezione della corte di cassazione, hanno rimandato nuovamente il giudizio al tribunale di sorveglianza di Bologna, che aveva rifiutato il differimento dell’esecuzione della pena al vecchio e malato boss mafioso”.
“La corte di cassazione ha stabilito il principio che tutte le persone debbano morire con dignità! Tante le polemiche e le contrarietà a questa decisione, ma allora i levatori di scudi su questa decisione, abbiano il coraggio di dire, che sono favorevoli alla pena di morte. Secondo me invece questa sentenza è un segnale forte e incisivo di lotta alla mafia”.
“Il segnale che lo Stato ha un’altra cultura! La mafia si batte anche così!”, conclude Petrilli.