Il regista non esprime giudizi. Ha scelto un taglio asciutto e neutro per far risaltare il contesto di tragicità ed eccezionalità in cui versano le favelas. A fronte dell’inadeguatezza della classe dirigente e dell’impotenza del sistema giudiziario, Padilha sembra suggerire come in fondo, in quella che nei fatti è una guerra, sia naturale che la popolazione chieda ed esiga misure drastiche. Non esiste bilanciamento tra opposte esigenze: c’è solo la necessità della sicurezza. È un problema che, in ultima istanza, si chiama “controllo del territorio”…
Tropa de Elite, scritto da Braulio Mantovani, sceneggiatore di City of God, è un film dalla palese e provocatoria analisi sociale, un racconto storico, visto che i fatti narrati sono datati 1997. 17 anni fa, eppure sembra ieri, viste le azioni che la polizia brasiliana ha messo in campo per “bonificare” alcuni quartieri in vista dei Mondiali di calcio.
José Padilha – dopo il successo di questo film – ha seguito a Hollywood altri registi “impegnati” come per esempio l’inglese Paul Greengrass che dopo Bloody Sunday (vincitore anch’esso a Berlino e presentato al Sundance festival, a riprova della capacità degli Usa di inglobare nella propria “narrazione” anche la controcultura) ha realizzato film di grande impatto come United 93 (sull’11 settembre), gli ultimi due episodi della saga dedicata a Jason Bourne, Green Zone (sulla manipolazione delle prove a sostegno dell’intervento americano in Iraq) o Captain Phillips (sulla pirateria in Somalia).
Un percorso simile a quello dell’olandese Paul Verhoeven che dopo il controverso Soldato d’Orange, ha firmato grandi successi come Atto di Forza, Basic Istinct o Robocop di cui proprio Padilha ha realizzato un remake: in un futuro non troppo lontano gli Stati Uniti nelle zone di guerra utilizzano – assieme ai droni – robot dalla forma umana. Per legge non possono però farlo in Patria.
La Omnicorp, società detentrice di questa tecnologia, nel tentativo di “invadere” anche il mercato interno, pensa che “mettere” un uomo dentro la macchine potrebbe cambiare la percezione dell’opinione pubblica e così mantiene in vita un agente di polizia orribilmente mutilato in un attentato e ne fa un cyborg. A Josè Padilha, come nelle sue opere precedenti, interessa scoprire il limite fino al quale occorre spingersi per far rispettare la legge e cosa implichi oltrepassare questo limite. Questo Robocop diventa così un film fortemente politicizzato, in cui gli Usa del futuro prossimo sono una versione esasperata e distopica di quelli odierni e nel quale l’avanzata tecnologia che rende possibili i robot crea un divario incolmabile con il resto del mondo. L’uso della sorveglianza robotica (che Padilha mette in relazione con l’uso dei droni) è sempre ripresa come un elemento disturbante e alieno.
Questo scenario è stato codificato e anticipato in ambito accademico dalle opere di Thomas P.M. Barnett docente presso l’U.s. Naval War College. La sua tesi è che, fino all’11 settembre, il Pentagono avrebbe continuato – per forza d’inerzia – a mantenere un assetto da Guerra Fredda: un’organizzazione militare creata per fronteggiare uno o al massimo due avversari per volta. Al contrario, il nuovo ambiente strategico emerso dalle rovine delle Twin Towers ha portato a radicali cambiamenti nella mentalità militare. Mentre l’amministrazione Clinton godeva di un periodo di pace (una sorta di “ora di ricreazione” seguita all'”euforia” per il crollo del comunismo e dell’Urss) e si impegnava a costruire l’architettura globale dei mercati finanziari, una nuova sfida stava rapidamente emergendo, quella dei “Paesi meno inclusi” (the rise of the lesser includeds): le aree al di fuori della globalizzazione, che diventano il terreno di coltura di nuovi pericoli e nuovi estremismi. Negli stessi anni, però, il Pentagono clintoniano non si impegnava a cambiare obiettivi e procedure, ignorando i segnali che invitavano ad adottare le necessarie trasformazioni.
Nell’approccio di Barnett (e nella “visione” cinematografica di Padilha), il mondo globale appare diviso in gruppi di appartenenza: il functional core (il nucleo funzionale della globalizzazione) e il gap (una “distanza” rispetto alla globalizzazione, un luogo nello spazio e nel tempo, in cui la vita degli esseri umani è breve, dura e spietata). Tra questi due gruppi vi è una varietà di seam States (Stati “saldatura”). Tra i Paesi del core – a sua volta diviso in old core (il ricco mondo “globalizzato”: Australia, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Francia, Nuova Zelanda e Usa) e new core (un nuovo nucleo costituito da India e Cina) – vige una pace “kantiana”: l’interconnessione e la reciproca dipendenza economica e commerciale dovrebbero impedire l’esplosione dei conflitti.
Gli Stati nel gap – l’Iran, la Corea del Nord e tutta l’Africa – sono percepiti come fonte di instabilità, e sarebbero praticamente incapaci di competere nella sfida dell’economia globale: si tratterebbe di una specie di mondo “hobbesiano”, in cui le singole entità statuali tendono ad isolarsi e ad arroccarsi in una dimensione autocratica. L’auspicio di Barnett è che la strategia americana protegga ed espanda il core, eliminando gradualmente tutti i regimi che resistono alla globalizzazione. Di fatto, l’autore caldeggia il passaggio da un “ordine” mondiale (determinato dall’adesione spontanea di tutti o quasi gli attori a un insieme di prassi) a un “sistema” sempre più obbligato a gravitare verso la sola potenza egemone: un “sistema” – o un nuovo ordine mondiale – altamente gerarchizzato, proprio grazie a un’integrazione della politica militare con quella economica.
In questo scenario il ruolo dell’Onu appare totalmente marginale e sostituito di fatto dal consesso dei Paesi ricchi e cointeressati allo sviluppo globale: un G8 diventato G20. Per Barnett, la priorità americana deve essere quella di riformare il proprio strumento bellico, dividendo le sue forze in due branche distinte.
La prima, chiamata Leviathan, dovrebbe gestire l’arsenale nucleare e l’apparato bellico offensivo: “le forze speciali”, i reparti paramilitari della Cia, il supporto elettronico, la logistica strategica e il fuoco di precisione in profondità, quest’ultimo da effettuarsi con missili stand-off (capaci di colpire gli obiettivi assegnati consentendo ai veicoli di rimanere sicuri al di fuori del raggio d’azione delle difese nemiche) o con i droni: un vero e proprio inarrestabile rullo compressore, in grado di paralizzare rapidamente le strutture di comando e di controllo del nemico per poi distruggerne le forze, attaccando obiettivi isolati – privi di collegamenti e coerenza, e conseguentemente di ogni reale capacità di reazione – in modo da conseguire il dominio “rapido” del tempo e dello spazio. Duplice scopo del Leviathan sarebbe da un lato la deterrenza (dissuadere i conflitti tra le grandi potenze del core), dall’altro la rapida eliminazione dei regimi nel gap, qualora questi divenissero troppo pericolosi. In tal caso l’enfasi sarebbe posta sulla velocità di esecuzione, sulla flessibilità e sulla capacità di manovra. La sua azione sarebbe “hobbesiana” in senso estremo: breve e brutale.
L’altro complesso militare, il System administrator force (Sys admin) dovrebbe occuparsi di contro-insorgenza, di ricostruzione e riforma degli Stati sconfitti dal Leviathan: agli ausiliari verrebbe lasciato il “lavoro sporco” della fanteria, che sola può permettere, attraverso il controllo del territorio, di avere ragione dei “barbari guerrieri” dei conflitti etnici e identitari.
Barnett afferma che il Leviathan (uno strumento essenzialmente punitivo) non dovrebbe essere soggetto ad alcun tipo di vincolo, mentre la Sys admin, che dovrebbe rendere le reti più robuste e le crisi più trasparenti, verrebbe gestita con il voto del G20, in proporzione alle forze conferite da ciascun Paese del functional core alla co-gestione del Pianeta
Alcuni di questi temi si trovano anche nel libro Il pianeta degli Slum del sociologo Mike Davis in cui l’autore descrive i diversi movimenti – politici, etnici e religiosi – che si contendono l’anima e il cuore dei nuovi poveri: dal fondamentalismo induista di Bombay alla resistenza islamista di Casablanca o Benghazi, dal pentecostalismo di Kinshasa al populismo rivoluzionario di Caracas. Paradossalmente, per Davis gli unici a rendersi conto di questa terrificante evoluzione sarebbero proprio i guru del Pentagono: “I futuri teatri di guerra saranno le strade, le fogne, gli edifici a più piani, le aree urbane con distese disordinate di fabbricati che costituiscono le città disastrate del Terzo mondo“.
Per il capitano dell’Usaf Troy Thomas: “Nell’era industriale e post-industriale, le città sono diventate il centro della crescita economica. Allo stesso tempo la disordinata e rapida estensione dei centri urbani diviene una sorgente di instabilità e di potenziali conflitti, quando la sua ‘taglia’ supera la capacità di gestione“. Vengono così evocati i bassifondi in espansione di Lagos e di Kinshasa come altrettanti campi di battaglia da incubo. Proprio la catastrofe – consumatasi tra i “canion di cemento” di Mogadiscio del 1993, quando le milizie di Mohammed Farah Aideed inflissero pesantissime perdite ai rangers dell’esercito Usa – ha costretto gli strateghi statunitensi a ripensare le proprie dottrine operative. Un altro dei problemi che i pianificatori militari (e i soldati sul campo) si trovano ad affrontare è quello che il nemico non è più un esercito regolare, ma ribelli, insorti, guerriglieri e clan tribali.
L’altra faccia di questo approccio è rappresentata dalla questione della “militarizzazione” della sicurezza interna degli Stati Uniti: la tendenza americana a impiegare mezzi militari a fini di controllo sociale è antica, ma si afferma a partire dagli anni ’80 e non smette di crescere lungo tutti gli anni ’90. Consiste nella trasformazione delle forze di polizia, e quindi di sicurezza, in forze equipaggiata di mezzi militari e dotate di una mentalità non più poliziesca ma bellica. Questo processo di militarizzazione delle forza armate si è particolarmente acuito dopo le rivolte di Los Angeles nel 1992.
Proprio Mike Davis, nella sua sociologia di Los Angeles, City of Quartz, mostra bene come la città sia percepita dal Dipartimento di polizia (Lapd) come un mosaico di spazi, alcuni dei quali pacifici mentre altri, i quartieri neri, latini e poveri, appaiono come zone di guerra, dove gli agenti si comportano “come un esercito di occupazione“.
Per far ciò, il Lapd ha subito una militarizzazione intensiva durante gli anni ottanta: elaborazione di tattiche di pattugliamento e rastrellamento urbano molto offensive, affinate dalla messa in rete telematica di banche dati sulla delinquenza e la criminalità, il tutto coordinato con l’ausilio sistematico di elicotteri per il pattugliamento, la sorveglianza e gli inseguimenti. Inoltre, vari dispositivi in rete conferiscono alla polizia una forza molto più efficiente per operazioni di intrusione, controllo e intervento. Per di più, i poliziotti ricevono un addestramento alle arti marziali, e addirittura alle tecniche di combattimento corpo a corpo della fanteria – tra queste il krav maga, tecnica sviluppata dagli israeliani. Tale percezione dello spazio urbano come spazio di guerra è stata aggravata dalla “narrazione” effettuata dai media durante i disordini di Los Angeles (1992 e 1998), di New York (1999) e di Cincinnati (aprile 2001). In occasione di quest’ultima rivolta, conclusasi con l’assedio e poi l’assalto del ghetto nero da parte delle forze di polizia, Keith Fangman, allora presidente dell’Associazione delle polizie municipali americane, dichiarò alla Cnn: “È necessario che le forze di polizia siano educate meglio alle tecniche di escalation“.
Il vocabolario e la mentalità che sottendono a queste dichiarazioni, descrive i conflitti sociali in termini di sovversione violenta e fanno temere di vedere il disordine imporsi, così come la pace urbana lasciare il posto alla “guerra di tutti contro tutti”.
Proprio in questi giorni a Ferguson (Missouri) la polizia è finita di nuovo sotto accusa per i suoi metodi. Per fronteggiare le proteste scatenate dall’uccisione di un giovane da parte degli agenti, le autorità hanno schierato tutto il loro arsenale: blindati, swat con fucili d’assalto e cecchini. Un dispiegamento che ha spinto molti a chiedersi se le forze di polizia non siano appunto troppo militarizzate e se la loro stessa natura non sia compromessa da tutto ciò…
Molte polizie (anche di piccole cittadine) – grazie ai programmi finanziati dall’Homeland Security e alla cessione di materiale bellico da parte del Pentagono (solo nel 2013 sono stati registrati oltre 50 mila consegne per un valore complessivo di 420 milioni di dollari) – hanno potuto fornire ai loro uomini fucili M4, visori notturni, giubbotti anti-proiettile in grado di resistere a grossi calibri, elicotteri e veicoli corazzati concepiti per resistere agli Ied piazzati ai bordi delle strade afghane o irachene. Nelle strade di Ferguson sono apparsi anche i blindati di ultima generazione Bearcat.
Nessuno mette in discussione che l’esercito e la polizia abbiano il compito di provvedere alla sicurezza personale e collettiva, ma il rischio concreto è la perdita di focus rispetto al fatto che le istituzioni governative devono prioritariamente “combattere” – nei diversi scenari – una guerra ancora più difficile, quella per rimuovere le vere radici dell’instabilità: ingiustizia, repressione, disuguaglianza e corruzione…