«Prima le persone, poi i monumenti»
Riprodurre palmo a palmo, mattonella dopo mattonella, fino a disegnare un itinerario di strade, vicoli, palazzi, piazze. La memoria del sisma attraverso le pellicole fotografiche di Giorgio Stockel. Le immagini a colori e in bianco e nero scandiscono l’identità di una comunità che fa sempre più fatica a ritrovarsi in quello che era L’Aquila prima del 6 aprile. «Una madre mi racconta che sua figlia, che nel 2009 aveva due anni, è arrivata a chiederle cos’è la piazza. Lo spaesamento della bambina è significativo di una situazione in cui si trovano gli aquilani», spiega Stockel appoggiato su un tavolo della biblioteca «Salvatore Tommasi», in un locale che qualche intervento strutturale ad hoc ha reso poco più dignitoso di quello che era prima: un capannone industriale del nucleo di Bazzano che, nonostante le tante buone intenzioni, non diventerà mai polo culturale del capoluogo. «Il terremoto sta solo portando all’estremo un processo di espansione della periferia, partito negli anni ’60. E il traffico veicolare è testimonianza di questa esasperazione». Nato a Milano nel 1938, dal 1971 al 1984 ha svolto attività didattica all’Istituto di Architettura e Urbanistica della facoltà di Ingegneria dell’Università dell’Aquila. La sua passione per la fotografia gli ha permesso di mettere a disposizione della città un enorme patrimonio fotografico, arricchito a seguito del sisma. Un patrimonio che ora mette a disposizione della Deputazione di storia patria, attraverso l’archivio digitale raccolto in Sismaq.
Professor Stockel, com’è partita la sua ricerca fotografica dell’Aquila?
«Appena sono arrivato in città sono rimasto affascinato dalla sua progettazione e mi sono messo subito a studiare le trasformazioni urbane condotte in epoca contemporanea. C’è da dire che, negli anni in cui avevo avviato la mia collaborazione con la facoltà di Ingegneria, era stato avviato un dibattito molto fiorente sulla realizzazione dei centri storici del Centro Italia. Mi viene in mente Gubbio, ad esempio. Di qui, consultando e fotografando il materiale dell’Archivio di Stato, ho voluto documentare l’evoluzione del tessuto urbanistico, tra il 1860 e il 1960».
Perché proprio questo periodo?
«Ho scelto l’Unità d’Italia come momento storico pilota fino ad arrivare agli anni ’60 dov’è apprezzabile l’azione del piano regolatore. Da questo periodo in poi c’è stata l’espansione delle periferie che ci restituisce un perimetro cittadino che è quello che conosciamo oggi».
A quando risale il suo primo rilevamento fotografico sul campo?
«Parliamo dell’inizio degli anni Ottanta, tra il 1982 e il 1983. Sono riuscito a fotografare tutto il centro cittadino e i suoi immediati dintorni».
Con il senno di poi, questo suo lavoro appare come il testamento di una città che non c’è più.
«Quel centro storico, quei vicoli, quell’atmosfera che si respirava da una parte all’altra della città sono ormai assopiti».
Nel 2009 aveva interrotto da tempo la collaborazione con l’ateneo aquilano. Cosa l’ha spinta a tornare?
«Mia moglie e io ci trovavamo a Roma quella notte, ma siamo stati svegliati ugualmente dalla scossa. Passate le prime settimane ho voluto mettere a disposizione le mie conoscenze acquisite sul campo. Non solo. Ho ripreso la macchinetta e sono tornato a fotografare gli stessi vicoli che avevo percorso quasi 30 anni prima. Ma anche in questo caso il lavoro era incompleto».
In che senso?
«C’era da raccontare le condizioni di vita degli sfollati, tra Case, Map e Fondo Immobiliare. Nei quartieri Case ho incontrato persone come la signora Claudia Di Domenico che, nell’invitare la figlia a conoscere il centro storico, si è sentita rispondere dalla bimba che non sapeva cosa fosse una piazza. Anzi, ho deciso di intitolare proprio “Mamma, cos’è la piazza?” il libro (Aracne editore) che raccoglie il meglio delle testimonianze fotografiche raccolte nel post-terremoto».
Perché ha scelto di mettere in rilievo l’immagine di una bambina?
«I piccoli non capiscono cosa sia il passato, i racconti del passato per loro sono parole non in grado di sollecitare la loro immaginazione. Se non compiono parallelamente un’ esperienza visiva, il bagaglio linguistico acquisito non consente loro di rappresentarsi quanto viene riferito con le sole parole. Questo volume è un contributo affinché i suoi abitanti possano ricordare le loro case e i loro luoghi prima del sisma».
Ha provato a mettere a disposizione delle autorità le sue idee e la sua professionalità?
«L’ho fatto, ma con scarsi risultati. Ho contattato più volte il sindaco Cialente e l’allora commissario ai Beni culturali Marchetti, senza però ottenere nulla di concreto. Qui si preferisce ricostruire pensando ai monumenti, quando bisogna prima pensare alle persone per poi metterle in condizioni di ricostruire i monumenti».
Cosa pensa degli interventi sul centro storico?
«Manca una visione d’insieme che non può essere il semplice dov’era, com’era. In questo, bisogna considerare L’Aquila come un unico monumento».