Sinner, bandiera o agenda? il dilemma del ragazzo perfetto
Sul tavolo di Jannik Sinner c’erano due biglietti. Uno per Torino, dove dal 9 al 16 novembre difenderà il titolo alle Atp Finals. L’altro per Bologna, dove una settimana dopo l’Italia giocherà la Coppa Davis, vinta nelle ultime due edizioni. In mezzo ci sono solo 330 chilometri, che un Frecciarossa coprirebbe in poco più di due ore. Ma nel calendario di un tennista, quella distanza può sembrare un continente. E così Sinner ha scelto quale biglietto strappare: nella lista dei convocati della Davis figurano Musetti, Berrettini, Cobolli, Bolelli e Vavassori, ma non lui.
Il suo forfait non è un capriccio: nel tennis moderno, la linea tra gestione e opportunità è sottile. La Davis non assegna punti Atp e non paga grandi cachet. I grandi tornei e le esibizioni sì. Solo qualche giorno fa, Sinner ha partecipato al Six Kings Slam di Riad, un’esibizione d’oro con Djokovic e Alcaraz: sei milioni di dollari per pochi set. Qualcosa andrà anche in beneficenza, ma questo spiega perché oggi “riposo” e “strategia” sono sinonimi. Il corpo è investimento, la bandiera un valore relativo.
Non è la prima volta che Sinner sceglie la propria rotta. Dopo aver saltato le Olimpiadi di Parigi nel luglio 2024 — ufficialmente per una tonsillite, “one of my main goals for this season”, scrisse nel messaggio di rinuncia — e dopo aver declinato l’invito del presidente Sergio Mattarella al Quirinale, lo scorso gennaio, per la cerimonia di riconoscimento del tennis italiano, arriva un altro gran rifiuto. Nel mezzo, tre mesi di sospensione: tra febbraio e maggio, il numero due del mondo è rimasto fermo per un accordo con la Wada su un caso di contaminazione da clostebol, senza dolo. Una pausa forzata che ha giocoforza alleggerito il carico stagionale.
Eppure l’Italia, che con Sinner ha riscoperto l’orgoglio di vincere, si sente lasciata a metà. Lui ha fatto una scelta, poco attenta a quella di molti tifosi disposti a comprare biglietti e macinare chilometri per raggiungere Bologna nella speranza di vederlo giocare. “Comprendiamo e rispettiamo la decisione di Jannik, che per noi è molto dolorosa”, ha detto il presidente della Federtennis Angelo Binaghi. E Filippo Volandri ha ricordato: “La Davis è e resterà sempre casa sua”. Frasi composte, ma intrise di rassegnazione. Perché ogni successo internazionale di Sinner è un pezzo d’Italia che brilla, e ogni sua assenza sembra un debito non saldato.
Poi arriva Raymond Domenech, l’ex ct della Francia ai mondiali 2006 che come sempre sa dove fare male: “Non ditemi che Sinner è italiano. È austriaco”. Una battuta velenosa, perfetta per toccare il nervo scoperto: quanto siamo pronti ad accettare che il nostro eroe sia anche un professionista spietato?
Sinner non è un traditore né un modello. È un ragazzo di ventiquattro anni che ragiona da azienda, e forse è questo che più infastidisce. Perché mentre noi gli chiediamo cuore, lui ci mostra l’agenda. “Mi serve una settimana in più di preparazione”, spiega. “Può sembrare poco, ma una settimana di lavoro in quel periodo fa la differenza”. In un Paese dove la maglia azzurra è ancora una religione, suona come un’eresia. Nel rugby ci si rompe il setto nasale per arrivare a cantare l’inno – ricordate Andrea Lo Cicero quando giurava di non avere altri club che la Nazionale? – mentre nell’atletica si corre più per la bandiera che per il cronometro. Nel tennis, invece, la maglia pesa poco: il ranking è la nuova fede, il corpo, il tempio da non profanare.
Domenico De Gaetano, il tecnico che ha seguito Sinner da ragazzo, l’ha detto meglio di tutti: “Quando indossi l’azzurro, non sei più solo te stesso”. Ma Sinner è cresciuto in un mondo dove il sé stesso è la sola valuta che conti. Non sbaglia, ma non scalda. È l’effetto collaterale della perfezione: vince tutto o quasi, e ci ricorda che nessuno può vincere sempre per gli altri.
Il suo posto vuoto a Bologna peserà più di un avversario, ma anche meno di quanto immaginiamo. Perché nel tennis, come nella vita, la gratitudine non dura quanto un contratto. Il treno per Bologna partirà lo stesso, con o senza di lui. “A Salvini piacendo”, come ha scritto Massimo Gramellini nel suo Caffè di oggi sul Corriere della Sera.
