Psychodiagnostik: il test di Rorschach compie 100 anni
Nell’estate del 1921, esattamente un secolo fa, veniva pubblicato il saggio “Psychodiagnostik” di Hermann Rorschach. L’intento originario dello psichiatra svizzero era quello di presentare uno strumento diagnostico per la schizofrenia, ma il cosiddetto “test delle macchie” valicò pian piano i confini della comunità scientifica, influenzando ogni settore della cultura di massa.
Un’indagine rivoluzionaria
Il test di Rorschach si compone di dieci tavole nelle quali sono disegnate altrettante macchie d’inchiostro simmetriche: cinque monocromatiche nere, due bicolori nere e rosse, tre multicolori. Le immagini vengono mostrate al paziente, una alla volta. Il soggetto testato viene invitato a esprimere, secondo i propri tempi, quello che i disegni gli suscitano.
Non esistono risposte giuste o sbagliate. Saranno poi gli esaminatori a standardizzare i molteplici profili psicologici sulla base dei dati raccolti nel lungo periodo. Nel campo dei test proiettivi, quello di Rorschach, si distingue per la facilità di somministrazione, per l’assoluta libertà di espressione lasciata ai soggetti esaminati e per la sua capacità di indagine su larga scala della personalità, non necessariamente patologica. Alcuni detrattori del metodo, tuttavia, lo ritengono un metodo obsoleto. A causa della enorme diffusione delle tavole e della relativa fama, cadrebbe uno dei principi cardine del test: la spontaneità delle risposte.
Il contributo dell’arte sulla genesi del test
Si deve proprio a Hermann Rorschach la realizzazione pratica delle tavole che compongono il test. Figlio di Ulrich Rorschach, pittore e docente presso la Scuola di Arti Applicate di Zurigo, coltiva sin da bambino la passione per il disegno. Durante l’infanzia, il suo passatempo preferito sono le cosiddette “Klecksographie” ossia figure casuali formate versando un po’ di inchiostro su un foglio e poi piegandolo a metà. Il gioco delle macchie colorate gli fa guadagnare presso i suoi compagni di scuola il soprannome di “Klecs” che vuol dire appunto macchia.
Tale impulso creativo, unito al fervente clima di sperimentazione culturale che si respira in Svizzera all’inizio del Novecento, contribuiscono a porre le basi per la nascita del test di Rorschach. Non si dimentichi infatti che proprio a Zurigo, nel 1916, nasce il movimento Dada, dirompente avanguardia artistica, che promuove la libera associazione e la spontaneità creativa. Già nel 1917 il dottor Rorschach testa le tavole diagnostiche con i pazienti schizofrenici dell’ospedale di Herisau, nel cuore delle Alpi Svizzere. La sperimentazione ha un gran successo e il giovane psichiatra si dedica alla strutturazione del metodo nei quattro anni successivi.
La diffusione del test
Dopo vari perfezionamenti, Rorschach riesce a convogliare i suoi studi in “Psychodiagnostik”, un saggio scientifico pubblicato nel 1921. Lo psichiatra tuttavia non riesce ad assistere alla sua crescente divulgazione poiché muore l’anno successivo, a soli 37 anni, a causa di una peritonite malcurata.
Il test delle macchie lentamente si propaga in ogni parte del mondo, coinvolgendo varie generazioni di psichiatri e stimolando numerose reinterpretazioni. In Europa si diffonde maggiormente grazie allo studioso Ewald Bohm, mentre sono i collaboratori stessi di Rorschach a promuovere il test negli Stati Uniti. In particolare Emil Oberholzer trasmette il metodo del maestro a David Levy, psichiatra statunitense giunto in Svizzera per approfondire la psicodiagnostica.
Nel giro di qualche decennio, quello di Rorschach diventa un paradigma nel campo dei test proiettivi e trova applicazione nei più disparati ambiti, in particolare quello giudiziario e militare. Il test viene ad esempio utilizzato per il reclutamento di forze militari durante i conflitti bellici (come la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra del Vietnam). Si pensi che nel 1945 due psichiatri americani vengono incaricati dalle forze alleate di redigere il profilo psicologico di ventuno criminali nazisti imputati nel processo di Norimberga e tra gli altri viene impiegato anche il metodo Rorschach.
L’impatto di Rorscharch sulla cultura di massa
Alla fine degli anni ‘50 del Novecento, con l’avvento della Pop Art e della cultura di massa, anche le tavole di Rorschach diventano un “bene riproducibile” e diventano fonte di ispirazione per arte, letteratura, cinema, televisione e musica.
Nel settore delle arti figurative è Andy Warhol a dare dignità artistica alle celebri macchie di inchiostro, realizzando nel 1984 “Rorschach Paintings”, una serie di sessanta dipinti caratterizzati da macchie casuali ottenute dipingendo un solo lato della tela, poi ripiegato a imprimere l’altra metà.
Nel campo della letteratura, un illustre tributo è il fumetto “Watchmen” di Alan Moore edito per la DC Comics tra il 1986 e il 1987, dove uno dei protagonisti si chiama Rorschach e indossa una maschera ispirata alle famose macchie del test.
Numerosi sono gli omaggi cinematografici e televisivi. Impossibile non citare “Blade Runner” dove le persone vengono sottoposte al test per scoprire se sono umani o replicanti oppure “Armageddon” nel quale si vedono astronauti reclutati attraverso il metodo Rorschach.
Anche la serie animata più famosa al mondo “The Simpson” ha colto l’occasione di evocare in più di un episodio il rinomato test proiettivo.
In ambito musicale invece ricordiamo il videoclip del brano “Crazy” del duo Gnarls Barkley, interamente giocato sulla commistione tra le celebri macchie di inchiostro e i volti dei musicisti.
Una menzione a parte merita la locandina del capolavoro cinematografico “Il silenzio degli Innocenti”. L’immagine mostra una farfalla che sigilla la bocca della protagonista: esaminata con attenzione la falena evidenzia al centro un teschio che altro non è che una composizione di sette donne nude, tratta dall’opera fotografica In Voluptas Mors di Salvator Dalì e Phlippe Halsman. In questo caso il rimando a Rorschach consiste in una mirabile illusione ottica, in una fusione tra significante e significato che anticipa l’inquietudine e la profondità psicologica del film.