Mix the light into grey
«È un’arte convivere col dolore, mischiare la luce col grigio». Anno 2002, il mondo contava ancora le macerie delle Torri Gemelle e i Pearl Jam, rock band statunitense, si apprestava a far conoscere al resto del mondo la potenza silenziosa di una canzone, scritta per elaborare una tragedia vissuta in prima persona: due anni prima a Roskilde in Danimarca, si erano visti morire davanti nove persone «Perdemmo nove amici che non conosceremo mai».
Venne fuori così “Love boat Captain”, uno dei capolavori di sempre, una canzone che, prendendo in prestito quel “All you need is Love” dei Beatles, spinge a vedere tutto alla luce di una forza superiore. Quella stessa forza a cui fa riferimento l’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Petrocchi, nel suo messaggio di Pasqua divulgato in questi giorni, a ridosso della Settimana Santa. Consapevole di parlare a una città segnata dal dolore di una tragedia come il sisma, Petrocchi suggerisce di leggere quel dolore alla luce delle parole del Vangelo. In particolare «nel racconto della passione secondo Matteo appaiono due modi di portare la croce: quello di Simone di Cirene, il quale fu costretto a prenderla su di sé; e quello di Gesù, che l’ha assunta liberamente e per amore». Il presule pensa forse alla città, specie alle persone colpite direttamente dalla tragedia, ma non solo.
«Sono molti i volti del dolore» sottolinea «e tutti raccolti in “quel” Volto, il Volto dell’Uomo-Dio crocifisso, sul quale dobbiamo fissare il nostro sguardo commosso. C’è il dolore spirituale, quello che ti macera dentro, e quello fisico, che ti strazia il corpo. Ci sono i dolori inflitti dagli altri e quelli che noi stessi ci siamo provocati. Ci sono i dolori che ci toccano in prima persona, e quelli – forse ancora più gravi – che ci lacerano nella persona dei “vicini” (penso a genitori che hanno perso i figli o li vedono malati, oppure invischiati in esperienze deleterie…). Dolori visibili e dolori nascosti». Di qui l’impegno: «Io vorrei farmi “prossimo” di ogni fratello che soffre stringergli la mano e dirgli con affetto anche io sto con te». Nella lettera non ci sono riferimenti diretti, si parla di cose infinitamente piccole, intime, quanto di sofferenze legate a tragedie enormi. «Quella del patire» ribadisce il vescovo «è una esperienza universale: nessuno attraversa l’esistenza senza incontrarla, prima o poi. Perciò, la sofferenza è una compagna inevitabile: anzi, quanto più cerchiamo di scacciarla, tanto più ce la ritroviamo accanto».
«Nella nostra storia», riprende Petrocchi, «è Gesù a farsi carico della nostra Croce. Croce che spesso trasciniamo, ritenendola una insopportabile condanna che si è abbattuta sulla nostra esistenza. Ma quando la nostra Croce diventa la Sua, e noi la abbracciamo con Lui, essa smette di essere il giogo che ci incatena e ci schiavizza: allora il carico della tribolazione si fa leggero». Petrocchi ricorda una frase che lo ha aiutato nei momenti difficili: «Quando arriva un dolore, rifletti su cosa voglia da te. L’Amore eterno non manda nessuna sofferenza solo per farti piangere».