Sergio Parisse e il legame con L'Aquila
Se non fosse per i tempi stretti dettati dallo staff tecnico, uno come Sergio Parisse resterebbe per ore a bordocampo dopo gli allenamenti all’Acquacetosa. A raccontare aneddoti di questa o quella partita. Di questo o quel placcaggio al Murrayfield o di questa o quella ruck sull’erba del Twickenham. Perché di cose, in dieci anni di Sei nazioni, ce ne sono da raccontare.
Il team manager Troiani: «Il rugby ha bisogno dell’Aquila»
Capitano e ispiratore della nazionale di rugby, porta nel cuore l’orgoglio della terra di origine della sua famiglia. Suo padre Sergio, omonimo, nato all’Aquila, è stato campione d’Italia di rugby proprio con la squadra neroverde nel 1967, prima di accettare un contratto di lavoro (ingegnere elettronico) di sei mesi in Argentina. Da La Plata, però, dopo aver sposato la cosentina Carmela non è più ripartito. Ogni tanto, Sergio junior approfitta proprio delle partite del Sei nazioni per fare una capatina all’Aquila, per trovare amici e parenti.
I prossimi impegni della nazionale con Scozia e Inghilterra (rispettivamente il 22 febbraio e il 15 marzo) potrebbero costituire una buona occasione. «Sono legatissimo all’Aquila», spiega, «non solo per questioni personali. Questa città, con tutto quello che ha vissuto rappresenta un vero e proprio terreno di sfida per tutti i cittadini aquilani che devono trovare la forza e gli stimoli per andare avanti».
Il rugby costituisce uno di questi stimoli, come ha sottolineato giorni fa anche il team manager azzurro, Gino Troiani, altro aquilano purosangue. Una disciplina che di fatto costituisce uno strumento per dare un’opportunità di tipo sociale a tanti nostri ragazzi in un momento in cui mancano occasioni di aggregazione.
Parisse, tanti ricordi e affetti la legano all’Aquila. Che immagine si è fatto di questa città ferita e della sua squadra di rugby, che era nel gotha del rugby internazionale e ora sta vivendo un momento di difficoltà?
«Giocando a rugby impari a stringere i denti e andare avanti, affrontando a viso aperto l’avversario. Allo stesso modo, la gente di questa comunità segnata dal terremoto deve cercare di andare avanti e guardare oltre questa tragedia. In campo la partita la fanno i veri uomini, capaci di trascinare una squadra con grinta e sacrificio e di non mollare mai. Questi stessi sentimenti devono ispirare gli aquilani nel riprendersi la loro città, i loro spazi. Mi auguro comunque che le cose migliorino, per il capoluogo e per la sua storica squadra di rugby».
Dieci anni di Sei nazioni sono tanti, che sensazioni lasciano?
«Ho vissuto un periodo agonistico molto particolare, sono fiero di guidare la Nazionale. E sono molto felice anche di sapere che tanti aquilani seguono la nostra selezione ovunque giochi. Ad esempio, nel match di esordio a Cardiff sapevo di avere sugli spalti mia cugina Chiara Parisse, con suo marito Nicola e il nipotino Giovanni. Del resto, il bello di questo sport è che si può andare allo stadio portando tutta la famiglia».
Conta di fare una capatina all’Aquila tra una pausa e l’altra del Sei nazioni?
«Mi piacerebbe, magari approfittando di una delle pause del torneo. Del resto, siamo a soli 100 chilometri di distanza».
La butto lì: Andrea Masi ha parlato qualche volta della possibilità di finire all’Aquila la carriera agonistica. Del resto, è cresciuto proprio con la maglia neroverde. Avrebbe voglia di fargli compagnia?
«Perché no? (lo dice ridendo) Sarebbe bello che un giorno giocatori che hanno fatto una carriera importante all’estero possano tornare a dare una mano, in nome di una società che negli anni ha dato così tanti campioni alla Nazionale. Perché non collaborare attivamente e dare una mano?».