Così quella notte dodici anni fa
5 Aprile 2021 Condividi

Così quella notte dodici anni fa

di Fabio Iuliano – Ore 3.35: non trovo i pantaloni. Al buio, non trovo i pantaloni. I jeans che avevo addosso la sera prima devono essere ai piedi del letto. Sono sicuro di averli lasciati lì, ma non li trovo. Mi sento un cretino se penso a tutti quei discorsi sulla prevenzione, con cui abbiamo riempito i giornali senza neanche capire quello che stavamo scrivendo. Sono rimasto a letto: ho aspettato che la scossa finisse e mi sono alzato, solo per abbracciare Sabina. Dalle crepe di una parete immagino che altrove il terremoto abbia fatto un casino. Mio fratello sa già tutto. La sua finestra del secondo piano si affaccia sul centro. Parla di una nuvola di fumo enorme e della luce. Dall’Ansa sanno già tutto. Alle 3.39 mi chiama Luca da Pescara per dire che la scossa è stata avvertita da Trieste a Napoli e qualche altro dato tecnico che ora mi sfugge. Mi chiede se me la sento di andare in giro a raccontare quello che succede. «Stai bene? Te la senti? Noi siamo operativi nel giro di una mezz’ora. Tu vedi, annota e telefona». Sfrutto quella mezzora per recuperare un paio di pantaloni qualsiasi, le due macchinette fotografiche e per capire come mettermi in contatto con tutti i parenti. La macchina è pronta ed è già fuori: a quello ci avevo pensato, la sera prima.

LE FOTO DELLA NOTTE

Usciamo da via Savini in direzione San Francesco. La facciata della Caserma Rossi ha ceduto in parte. C’è traffico ovunque. Ascoltiamo in radio le prime notizie sul sisma. Non ricordo quale emittente parla di una scossa di magnitudo 6.7.

Dico 6.7.

Sono sicuro di aver sentito bene. Facciamo il giro delle case dei parenti, li rintracciamo tutti velocemente, per fortuna. A San Sisto una strada è interrotta perché un palazzo è crollato completamente. Chiamo Luca e glielo dico. Gli dico anche che di aver visto il sindaco Cialente nei pressi di Verde Aqua. Mi dice di lasciare perdere i politici per il momento e cercare notizie dal centro storico. «È lì che devi andare, credo». Mi immetto su viale Corrado IV, verso via XX Settembre. In macchina anche Sabina, mio padre e mia madre. Dal palazzo dell’Anas in poi, capiamo che aria tira.

All’edificio accanto c’è già gente che scava con le mani. Già i primi vigili sulle macerie, per cercare di togliere persone. Faccio qualche foto. È tutto quello che riesco a fare. Stessa cosa davanti alla Casa dello studente. Quando arriviamo c’è ancora qualcuno ai piani superiori; gente assiepata sull’aiuola con le coperte addosso. Qualcuno strilla, altri chiedono aiuto. L’intervento dei vigili è continuamente disturbato da gente che sbuca dai vicoli per chiedere aiuto. Prima di arrivare in piazza Duomo vedo sul telefono il numero dell’Ansa. È Simona stavolta. Mi chiede se penso che ci il terremoto abbia fatto vittime.

In piazza la scena è ben diversa da quella che abbiamo lasciato solo qualche ora prima. Fino a mezzanotte, il centro brulicava di persone elettrizzate per la scossa delle 23. Ora ci sono alcune macchine al centro di piazza Duomo, le macerie delle due chiese. Il vescovo senza occhiali e in camicia da notte. Mi spingo su via dell’Arcivescovado per vedere in che condizioni si trova il pub di mio fratello. Ma non arrivo fino a piazza della Prefettura. Il direttore del Centro mi chiama mentre sono in via Sallustio. C’è un gruppo di vecchiette con le coperte addosso: una di loro chiede a Sabina quando potranno rientrare, mentre le stringe le mani gelate. Dal giornale mi chiedono di mandare le prime foto. Torno a casa e accendo il computer. Funziona. C’è corrente e c’è linea telefonica, anche se il pavimento della stanza è pieno di cocci di bottiglie cadute. Spedisco le foto e torno per strada. Si fa giorno. Prima vado a Paganica. Poi torno in centro, passando dalla Fontana Luminosa. Fino a qualche ora prima, complici le temperature primaverili, corso Vittorio Emanuele e corso Federico II brulicavano di gente che passeggiava.

Ora per le strade deserte si vede solo qualche vigile, un gruppo di guardie forestali e alcuni fotografi che girano tra le rovine muniti anche loro di elmetti. Un cordone di poliziotti controlla l’accesso al corso. Per entrare bisogna aggirare il blocco. A questo punto le alternative sono tre: via Castello, via Camarda o via della Genca. Prima, queste due viuzze ospitavano decine di studenti. Li vedevi affacciarsi alla finestra con il libro in mano, sentivi lo stereo puntato su Virgin Radio.

Ora si sente solo il rumore di calcinacci e delle tegole che si muovono alla prima bava di vento. I vicoli dove non ci sono macerie (e quindi si può passare) si contano sulle dita di una mano: la piccola giungla di strade e stradine ospitava questo o quel ristorante, dove trascorrere una serata alternativa. Ripensi a tutte le notti passate all’aperto sorseggiando un bicchiere di Montepulciano; rivedi i negozi che non aprivano mai il lunedì mattina e quelli in cui i gestori intrattenevano i clienti con battute che capivano solo loro. Le vetrine di Intimissimi, il bar Eden, il negozio della Benetton che già aveva preso il posto del cinema Rex… Tutto questo non esiste più.

 

I manichini sono a terra: finestre e cornici continuano a crollare. E c’è il cinema Massimo, con parte della facciata danneggiata da cui spunta una locandina. Anche le polemiche delle settimane precedenti sulla locazione della sala, sono sepolte con le macerie. Poi il telefono squilla, è di nuovo il giornale: mi chiedono notizie di Giustino.

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Sei aprile, le foto della notte