Cara Rita, possiamo parlare dei Pearl Jam?
27 Giugno 2018 Condividi

Cara Rita, possiamo parlare dei Pearl Jam?

di Luca Dini – fonte Vanityfair.it Quando non si ha niente da aggiungere a un dibattito, meglio stare zitti. Ma aggiungere qualcosa allo strampalato dibattito che ha generato negli ultimi due giorni due trending topic di Twitter, forse, si può. Ieri ho visto «Rita Pavone» in tendenza e, cliccando, ho scoperto che la grintosissima artista aveva avuto da ridire sulla scelta di Eddie Vedder dei Pearl Jam di cantare, durante il concerto di martedì sera a Roma, Imagine di John Lennon proiettando sullo schermo l’hashtag #apriteiporti.

«Ma farsi gli affari loro, no?», aveva twittato Rita. Per poi spiegarsi meglio. «Ai Cip e Ciop che prendono lucciole per lanterne e sparano bordate idiote solo per darsi un contegno da chi conosce il mondo a menadito e magari non è mai andato al di là dei 200 km da casa propria, rispondo che ritengo poco etico e altamente opportunistico approfittare di un proprio concerto per dare consigli, pur cantando una meravigliosa canzone, ad altri. Se ci tieni a dire la tua, fai un concerto ad hoc per quella causa. Come fecero con Live Aid Michael Jackson e tantissimi altri. E il mio: “Ma farsi gli affari loro, no?”, era inteso come: Con tutte le rogne che hanno a casa loro negli USA, vengono a fare le pulci a noi? Puoi essere il più grande artista del mondo, ma ciò non toglie che sei un ospite e come tale dovresti comportarti. Amen».

Oggi invece, sempre nelle tendenze, vedo Riola Sardo, che colpevolmente non conosco, e che scopro essere un comune il cui sindaco, Ivo Zoncu, su Facebook ha lanciato un appello al ministro dell’Interno perché metta in gattabuia Eddie e compagni. «Ministro Salvini FALLI ARRESTARE!! I complici degli assassini CHE COMMERCIANO CARNE UMANA, devono essere IMPRIGIONATI! TUTTI!! GIORNALISTI, ARTISTI, RELIGIOSI, PDEUDOPOLITICI, PSEUDO UOMINI DI LEGGE, PSEUDO SCRITTORI!! I COMPLICI DEGLI SCHIAVISTI DEVONO ESSERE ARRESTATI!». (Le maiuscole, la punteggiatura e i refusi sono suoi.)

Il piccolo contributo che penso di poter dare ha un nome e cognome. Hugh Evans da Melbourne, 35 anni, cristiano praticante. Quello che il glossario imbruttito dei nostri tempi definirebbe un «buonista». Già da ragazzino si era messo in testa di dover cambiare il mondo. Aveva 14 anni quando convinse i compagni di scuola a partecipare a 40-Hour Famine, un annuale sciopero della fame per sensibilizzare sul tema delle carestie e destinare aiuti ai bambini dei Paesi colpiti, e mise insieme la migliore raccolta fondi di tutte le scuole d’Australia. Come ricompensa, venne mandato a conoscere una delle comunità a cui aveva migliorato la vita, uno slum costruito su una discarica a Manila, e passò una notte insonne in una stanzetta, tra gli scarafaggi e la puzza di immondizia, con il coteaneo Sonny Boy e i suoi sei familiari. Una domanda lo tormentava: che cosa ho fatto io per meritare la fortuna di non nascere qui? Quella domanda gli ha stravolto la vita.

Nel 2006, ispirato dai concerti del Live 8 dell’anno prima, e deciso a far esplodere anche nel suo Paese la campagna «Make Poverty History», ha organizzato un doppio concerto a Melbourne e alla Sydney Opera House. Bono, The Edge e i Pearl Jam (proprio loro) sono andati a cantare. L’allora premier australiano Kevin Rudd è salito sul palco e ha promesso di raddoppiare – dallo 0,28 allo 0,5% del Pil – l’aiuto governativo ai Paesi Poveri. Hugh aveva fatto tutto questo. A 23 anni.

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Da quel seme è nato un frutto che si chiama Global Poverty Project. E che ha come scopo quello di aiutare l’Onu a realizzare, entro la data-traguardo del 2030, i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – in sostanza sradicare la povertà estrema nel mondo, rendere universale l’istruzione primaria, promuovere la parità di genere, ridurre la mortalità infantile e materna, garantire energia rinnovabile e accessibile, acqua pulita e servizi igienico-sanitari. Azzerare il numero delle persone – oggi sono 700 milioni, non molti anni fa erano il doppio – che vivono con meno di 2 dollari e mezzo al giorno. Ma farlo senza chiedere un soldo ai comuni cittadini, e «gamificando» la militanza.

Dietro c’è un social network del bene, Global Citizen, che attraverso una app mobile permette a tutti gli iscritti – già quasi 10 milioni in tutto il mondo, l’obiettivo è di arrivare a 100 – di compiere azioni per convincere i governi a fare di più. Ogni azione fa guadagnare punti: un punto per iscriversi, un punto per mandare un tweet al proprio capo del governo (le azioni sono geolocalizzate), cinque punti per raggiungere i più ostici come Donald Trump, altri punti per condividere la storia di un’attivista africana, per partecipare a una protesta, eccetera. Il premio, raggiunto un certo punteggio, è l’invito a un concerto degli artisti convertiti alla causa.

Ogni anno, di solito al Central Park di New York ma a volte anche in sedi decentrate, c’è un Global Citizen Festival. U2 e Pearl Jam sono in ottima compagnia. Chris Martin, Rihanna, Beyoncé, Jay Z, Ed Sheeran, Kendrick Lamar, Usher, Demi Lovato, Neil Young, John Legend, i Metallica, i Foo Fighters e tanti altri, ogni volta raggiunti – live o in collegamento – da artisti e statisti: Leonardo DiCaprio e Hugh Jackman, ma anche il premier indiano Narendra Modi e quella norvegese Erna Solberg, Silvia Regina di Svezia, Barack e Michelle Obama. Quando al concerto di due anni fa Justin Trudeau ha chiesto aiuto per combattere la diffusione mondiale del virus HIV, Rihanna dal palco ha scatenato i suoi follower di Twitter sui parlamentari canadesi. Risultato: un robusto stanziamento del governo di Ottawa che ha permesso a Trudeau di andare all’Onu con il cappello in mano, e di farsi promettere dagli altri Paesi la bellezza di 13 miliardi di dollari.

Hugh Evans calcola che per azzerare la povertà estrema «entro la nostra generazione» servano, da qui al 2030, 260 miliardi di dollari l’anno. Gli aiuti governativi e quelli della filantropia privata (vedi alla voce Bill Gates) raggiungono i 150, colmare i 110 che mancano è la guerra buona di Global Citizen. Guerra per un terzo già vinta: la campagna ha estorto ai governi del mondo una promessa di 35 miliardi l’anno, di cui 10 già raccolti e spesi, con un impatto reale sulle vite di 650 milioni di esseri umani e la prospettiva di superare il miliardo. E non si tratta di vuote parole: a bordo c’è PricewaterhouseCoopers, colosso globale della revisione contabile, che vigila sull’uso dei fondi da parte di Ong e organizzazioni internazionali. La decisione di cantare Imagine martedì sera, e di metterci dietro quell’hashtag, non serve a fare da maestrini all’Italia: è parte di quello sforzo. E nel pubblico, arrivati come turisti a Roma da tutto il mondo a riscuotere il premio, c’erano parecchi «soldati» dell’armata di Global Citizen. Per loro, quello dei Pearl Jam era appunto «un concerto ad hoc», proprio come il Live Aid di Michael Jackson.

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Non ho avuto il piacere di assistere allo spettacolo ma la sera dopo, a cena sotto un tramonto romano spettacolare, ho conosciuto Eddie Vedder e Hugh Evans. E con tutto l’affetto per Rita Pavone e con tutto il rispetto per il sindaco di Riola Sardo (comprenderete la differenza di trattamento: lui non lo conosco, lei la amo da sempre), devo dire che ho scoperto due persone umili e abbastanza straordinarie. Altro che Cip e Ciop: il mondo lo conoscono e cercano di cambiarlo in meglio, che è più di quanto si possa dire della maggior parte di noi. Se ci fossero milioni di Eddie Vedder e di Hugh Evans, oggi forse non piangeremmo altri bambini annegati davanti alla Libia. E i porti potrebbero restare aperti, perché non avrebbero nessuno da cui difenderci.