28 Ottobre 2016 Condividi

Poeta en Nueva York, la profezia di Lorca

Nel 1928, in una conferenza tenuta agli studenti dell’università di Granada, un uomo spiegò così la natura della poesia: «La luce del poeta è la contraddizione». Quell’uomo era il trentenne Federico García  Lorca (Fuente Vaqueros 1898 – Viznar 1936) esponente di spicco della Generazione del ’27, la stella della letteratura spagnola che ha cantato i miti dell’Andalusia e i dolori devastanti della società occidentale contemporanea.

Garcia lorcaMa cos’è il duende (termine arduo da tradurre, si riferisce all’energia sprigionata nel momento di una creazione artistica) e come nasce? Il bagliore che ha accompagnato la vita intera di García Lorca è stato, per l’appunto, il talento della contraddizione. Non ha nulla a che fare con il concetto logico di “incoerenza”. Si riferisce semmai ai frutti scaturiti dalla lotta interiore del poeta, che desidera andare oltre la propria individualità, oltre ai muri percepiti nella propria esistenza, non per conquistare qualcosa, ma per recuperare quel che crede di aver perduto dall’infanzia. E  tutto ciò si risolve in un continuo  evolversi di emozioni, nell’impulso che eleva l’uomo dal particolare del quotidiano all’ancestrale.  

Nella sua attività letteraria,  iniziata nel 1917 e durata fino al 1937 – anno della fucilazione da parte dei nazionalisti di Franco – García Lorca consacra la sua terra natia, la rossastra Andalusia dagli echi arabo-gitani. Le sue opere più famose rimandano infatti alla folkloristica tradizione orale dei canti moreschi e i titoli lo rivelano chiaramente: Romancero gitano (1928) e Poema del cante jondo (1931) gettano, con forme diverse ma con simile intensità lirica, un ponte fra la vita reale dei gitani e la cosmologia fantastica del poeta. La lingua è limpida, passionale e disciplinata nelle strutture tradizionali.
Ma la sua opera più matura – e dunque più dolorosa – è Poeta a New York (1929-1930), scritta durante la permanenza alla Colombia University come studente.  Qui il linguaggio del poeta granadino attinge dal mondo del surrealismo: i versi si fanno più cupi, pervasi da presagi funerei, la sintassi più contorta, seppure sorretta da una struttura logica. E la lingua poetica, come sempre, è l’espressione della riflessione interiore al poeta.  Gli occhi di García Lorca assistono alla realtà angosciosa di New York: il grano delle terre spagnole è mutato nel denaro che opprime la società occidentale. Oramai la metropoli non ha un domani, non ha un futuro che non sia quello che affoga nel sangue, l’alba è totalmente snaturata. Così ne L’aurora:


«L’aurora di New York possiede

quattro colonne di fango

e un uragano di colombi neri

che sguazzano nell’acqua torbida.

L’aurora di New York geme

su per le immense scalinate

cercando in mezzo agli spigoli

nardi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva e nessuno l’accoglie nella bocca

perché là non c’è domani né speranza possibile.

Talvolta le monete fitte in sciami furiosi

traforano e divorano bambini abbandonati.

I primi ad affacciarsi comprendono nelle ossa

che non avranno l’eden né gli amori sfogliati;

sanno che vanno al fango di numeri e di leggi,

a giochi privi d’arte, a sudori infruttuosi.

La luce è seppellita da catene e frastuoni

in impudica sfida di scienza senza radici.

Nei quartieri c’è gente che barcolla d’insonnia

come appena scampata da un naufragio di sangue.»

I quartieri americani non hanno più alcuna luce, non hanno una mattina; quindi non hanno un domani, poiché l’Uomo è oramai privo di legami con la sua stessa dignità, e privo di legami con la Natura a causa della realtà sociale che ha macchinato. Ecco che il capitalismo trasporta la fantasia di Lorca nella sola dimensione del lamento funebre. Dove sono finiti gli oliveti, il mare, le campagne dorate, le conchiglie, dove la quotidianità del bambino di Fuente Vaqueros? Ma come García Lorca non stilizzava il paesaggio andaluso nei suoi cantos romanceros, così Poeta en Nueva York non è un’implicita venerazione della propria patria, né una banale contrapposizione tra “Mediterraneo” buono e “Occidente” cattivo.

Poeta en Nueva YorkAnzi, nella città americana l’autore ritrova i dolori e le visioni di sempre. Per esempio in Bambina annegata nel pozzo l’io lirico confessa alla piccola vittima: «Nessuno nel buio potrà darti distanze,/bensì affilato limite, futuro di diamante./… senza sbocco./ Mentre la gente cerca silenzi di guanciale,/ tu palpiti per sempre definita nel cerchio./… senza sbocco». È ricorrente, infatti, nei versi lorchiani la natura tratteggiata come una presenza sinistra, misteriosa e ammaliante, che intrappola bambini innocenti. Basti pensare al noto Romance de la luna, lunadel Romancero gitano: con una danza macabra il satellite si avvicina ad un gruppo di gitani, e «vola nel cielo la luna/ con un bambino per mano./ piangono […] lanciando grida i gitani./ Il vento la veglia, veglia». Bambina annegata nel pozzo, assieme a Cielo vivo, fa parte della coppia di poesie ambientate nella campagna americana – rispettivamente a Newburgh e a Eden Mills – come si è visto, però, permane il tono angosciato dalle visioni di New York.

Oltre alla realtà distruttrice del capitalismo, l’altro grande cuore tematico è la vitalità rimasta negli occhi degli oppressi. Nel vuoto della Grande Mela quel che resta di umano sono gli occhi dei neri; è la caotica Harlem, culla della diversità innata, che lascia trasparire un segno di speranza.  New York (Ufficio e Denuncia) è forse il componimento più struggente della raccolta. Nel verso «sotto le somme c’è un fiume di tenero sangue» appaiono chiare la compassione e il fatalismo di García Lorca, che scoperchia le somme della società capitalistica, osservando il fiume di tenero sangueche scorre per le vie della periferia. Nella città americana l’autore trova ancora più solida la propria identità di granadino omosessuale, identità legata alle minoranze degli indifesi. Si sente pertanto fratello di quei neri che «credono, sperano, cantano e hanno una squisita purezza religiosa che li salva da tutte le pericolose angustie quotidiane».Assistendo al crollo di Wall Street del ’29 Lorca realizzò che la stessa massa che ha creato il consumismo, gli stessi carnefici della dignità degli oppressi, sono gli assassini di se stessi. Con la seguente allucinazione di Danza della morte García Lorca immagina la futura tragica morte del capitalismo, ovvero quello a cui non ci rendiamo conto di assistere:

«I cobra fischieranno agli ultimi piani,

le ortiche faranno tremare cortili e terrazzi,

la Borsa sarà una piramide di muschio,

spunteranno le liane dopo i fucili

e molto presto, molto presto, molto presto.

Ahi, Wall Street!»

Poeta en Nueva York è, insomma, la profezia lasciataci dal grande poeta che non ha mai smesso di identificare la natia Granada col mondo intero e se stesso con “ il moro che tutti ci portiamo dentro”. Il suo amico Vicente Aleixandre (poeta e Nobel della letteratura del 1977) ha così descritto il suo frequente silenzio:

«l’ora muta di Federico era l’ora del poeta, l’ora di solitudine, ma di solitudine generosa, perché è quando il poeta sente di essere espressione di tutti gli uomini».

LorcaCuba

di Andrea Piasentini, fonte: il Fascino degli intellettuali