31 Dicembre 2009 Condividi

Una città italiana privata della sua identità culturale

di Michael Kimmelman
Testo originale: “New York Times” del 23 dicembre 2009

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L’AQUILA – Le città richiedono secoli per crescere, ma possono morire in un batter d’occhio

Dopo che in aprile un terremoto ha ucciso centinaia di persone e ne ha lasciate decine di migliaia senza tetto, nel territorio di questa città medioevale e barocca, a circa 70 miglia a nord-est di Roma, gli sforzi profusi per i soccorsi di emergenza sono stati straordinari. Volontari da ogni parte d’Italia sono accorsi per offrire aiuto. Sono state rapidamente allestite tendopoli fuori dalla zona pericolosa. Sono stati organizzati concerti allo scopo di offrire continuità e speranza, mentre lavoratori edili hanno rapidamente eretto decine di complessi residenziali nei dintorni della città.

Ma ora che il governatore della regione ed il Ministro dei beni culturali si preparano a subentrare al Dipartimento per la protezione civile al fine di procedere alla ricostruzione, il futuro a lungo termine de L’Aquila è in bilico. Assenza di fondi, di coinvolgimento politico, di buon senso architettonico e di attenzione internazionale – unite alla predilezione tutta italiana per chi pensa di possedere la bacchetta magica – minacciano di fare quello che non ha fatto il terremoto.

Non sarebbe la prima città italiana a non riprendersi più da un terremoto. Dopo il sisma che colpì la Sicilia negli anni ‘60 i centri storici furono abbandonati, e nel migliore dei casi sopravvivono solo di nome nelle squallide costruzioni tirate su come abitazioni provvisorie, poi diventate permanenti in mancanza di alternative e per trascuratezza. Per L’Aquila occorrerebbe investire meglio. Si stanno facendo sforzi per salvare i quasi 110.000 monumenti e manufatti che secondo il ministero dei beni culturali sono stati danneggiati dal terremoto. Ma secondo la previsione ministeriale ufficiale occorreranno 10 o 15 anni per riportare il centro storico alla normalità, in tutti i sensi dell’espressione, e quasi tutti gli interventi di ricostruzione, inclusi quelli delle case private, dovranno essere approvati dal ministero, attraverso una procedura scrupolosa.

Prima del terremoto circa 10.000 persone abitavano nel centro della città e circa altre 60.000 fuori dal centro. Dopo un decennio o più da sfollati, coloro che una volta vivevano nel cuore de L’Aquila potrebbero non trovarsi più in zona o non voler tornare, e le case costruite per loro – fino a questo momento sono stati realizzati 150 complessi in legno, acciaio e calcestruzzo – potrebbero aver cambiato il territorio fino a renderlo irriconoscibile. L’Aquila, attraente centro storico medioevale nel quale si innestava in equilibrio precario un centro storico barocco (e questa precarietà spiega, in parte, l’entità del danno), era anche un centro commerciale e culturale ed una città universitaria. Se il centro dovesse rimanere morto, in pochi anni potrebbe finire per essere nulla più che un sito turistico di secondaria importanza, nel mezzo di un agglomerato urbano indifferenziato.

Piani di ricostruzione di qualsiasi tipo, e in particolare quelli più rapidi, richiedono miliardi di dollari (almeno 16 miliardi di dollari, secondo diverse stime), la gran parte dei quali dovrebbe arrivare dal parlamento italiano. Ma anche la piccola tassa finalizzata alla ricostruzione, recentemente proposta dal sindaco de L’Aquila e da diversi funzionari del ministero dei beni culturali, è finita nel nulla. In un Paese oberato dal debito pubblico e distratto dalle vicissitudini del Presidente del consiglio riportate dalla stampa, il successo degli aiuti nella fase dell’emergenza ha paradossalmente creato l’impressione che L’Aquila non abbia più urgenti necessità di aiuto. Come ha dichiarato qualche giorno fa Michela Santoro, una assistente del sindaco Massimo Cialente: “Il messaggio sui media è: ‘Le cose vanno bene’. Messaggio che è lungi dal corrispondere alla verità dei fatti”.

Il sindaco Cialente, da parte sua, si è affannato a ripetere ai giornalisti ed alle troupe televisive dentro e fuori dal suo ufficio di fortuna, ricavato in una ex scuola nella periferia cittadina, sempre lo stesso duro messaggio: “Se non ricostruiremo in modo adeguato – che nella sua prospettiva sta a significare riportare tutto esattamente come era, ma reso sismicamente sicuro – sarà una vergogna per l’intero Paese. Sarà una nuova Pompei”.

Si tratta di una preoccupazione tipica di qui. Gli italiani spesso sono portati a pensare che se non saranno in grado di restaurare il passato finiranno per farne parte. Ogni alternativa è difficilmente immaginabile.

Roberta Pilolli lavora per il conservatorio de L’Aquila. Dopo il terremoto ha collaborato a tirare fuori dalle macerie i pianoforti a coda. Gli aquilani sono orgogliosi di essere tenaci.
L’altro giorno, in felpa e scarpe da ginnastica, si stava preparando per l’apertura ufficiale, questa settimana, della nuova sede del conservatorio, un complesso in metallo e vetro da 8 milioni di dollari, costruito in poco più di un mese, nei quartieri periferici sviluppatisi in modo incontrollato.

“Voglio indietro la mia casa esattamente com’era”, ha detto la signora Pilolli. Stava parlando della sua piccola casa a terrazza di prima della guerra in centro città, dove la sua famiglia ha vissuto per anni – non un tesoro architettonico, ma non era questo il punto. “E’ la mia identità”, ha aggiunto. “Ora L’Aquila è morta e si preoccupano solo di chiese e monumenti, non delle nostre case. Ma l’intera città era un monumento.”

Riferendosi ai nuovi condomini costruiti dal Governo, che sono simili al nuovo conservatorio, Aldo Benedetti, professore di architettura a L’Aquila, ha spiegato: “Non si inseriscono in nessun contesto, non portano nessuna idea di architettura, ma solo l’aspetto di caserme dell’esercito buttate giù da qualche parte.”

Pier Luigi Cervellati, professore di urbanistica a Venezia, va oltre. Ha detto che la ricostruzione dovrebbe preoccuparsi in primo luogo di far rientrare più rapidamente i residenti nel centro storico, non di dargli abitazioni alternative, chiese, monumenti, grandi magazzini e attività commerciali. “Un centro lasciato vuoto per anni muore,” ha detto. “Queste case nuove che stanno costruendo in periferia sono molto costose e non hanno senso dal punto di vista urbanistico. Sono come i terminal di un aeroporto. Non hanno anima. Il rischio è che il centro diventi un non-luogo.’

Chi risiede nei nuovi appartamenti, grato in un primo tempo di avere ricevuto un posto dove stare, ora già si lamenta della mancanza di spazi, negozi, campi sportivi e di qualsiasi organizzazione sociale. Non ci vuole molto, dopo un disastro come questo qui, per passare dalla gratitudine all’impazienza e alla sfiducia. Le voci di corruzione e tangenti naturalmente dilagano e incalzano. Il conservatorio è costato quasi tre volte quello proposto, al costo di 3 milioni di dollari, da Shigeru Ban, il noto architetto giapponese, con annessa sala da concerti. Gli Aquilani, così come il professor Benedetti, da tempo si chiedono perché.

Qual è la soluzione? Anche quando le bombe cadevano su Londra durante il blitz del 1940, gli urbanisti inglesi proiettavano visioni di una nuova Londra nel dopoguerra. La disgrazia divenne la possibilità di sognare. In assenza sia di un’autorevole leadership in grado di fare da guida, sia di valide leggi sull’urbanistica, sia di luoghi di discussione pubblica dove i cittadini abbiano il potere di confrontarsi seriamente con L’Aquila del futuro, si fa viva solo la sensazione che la possibilità stia scivolando via. Ma l’opportunità ancora è data di includere forse un’architettura nuova a fianco dell’antica, come fece L’Aquila dopo il terremoto del 1703, quando divenne l’amata città barocca che ora tutti vogliono preservare, come se ci fosse sempre stata. Mai una città perfetta, ma una reale e viva. L’Aquila potrebbe perfino diventare il modello per un nuovo tipo di centro storico del 21mo secolo in Italia.

Ma il tempo vola. Di recente, visitando le rovine della chiesa parrocchiale di Santa Maria Paganica, dove il tetto è crollato e una surreale montagna di macerie all’interno si eleva verso le finestre che danno sul tetto delle navate laterali, osservavo un archeologo del Ministero dei beni culturali, che doveva catalogare ogni più minuto frammento, sprecare mezz’ora, nel freddo pungente e nella neve, a litigare con Michelangelo Saporito, un pompiere che lavora per i servizi d’emergenza.

Saporito, siciliano, è arrivato a maggio, cinque giorni dopo la nascita del suo secondo figlio. Voleva aiutare. Quella mattina stava mostrando la chiesa ad un visitatore, come aveva già fatto più volte quel giorno con altri visitatori. Ma si era dimenticato di portare il consueto modulo di permesso. La burocrazia e le priorità sbagliate hanno bloccato il progresso.
Sembrava una metafora. Saporito ha tirato un sospiro. “Lei lo vede qual è il problema.” Lui l’ha messa così.

(traduzione di Adriano Sponzilli, Giano, Ezio Bianchi, Giovanni Incorvati)